Per i mercati azionari i rialzi degli ultimi anni sono tutto sommato ordinaria amministrazione. Non come la mania speculativa del 2007 e del 2000: quando i fondi di investimento facevano il pieno. Oggi, al contrario, le vendite fra i piccoli investitori prevalgono nettamente.
È stata, quella di ieri, una nuova seduta esaltante per gli investitori: specie per coloro che sono orientati verso i listini europei (dati fra le sorprese europee nel 2021 Yearly Outlook). Lo Stoxx600 compie un ulteriore passo in avanti verso il raggiungimento del massimo di inizio 2020: un obiettivo minimo, dopo il superamento dell’ultima barriera fra 399 e 405 punti, come si ricorderà.
Ma la notizia del giorno è il raggiungimento dei 15 mila punti da parte del Dax30: con qualche giorno di anticipo rispetto ad una previsione, invero ambiziosa, delineata addirittura ad agosto dello scorso anno, come rammentato ieri pomeriggio sul blog. Ma il Dax come noto è indice di performance, inclusivo dei dividendi. Meglio ancora fa il KursIndex, che ieri ha sfondato il triplo massimo del 2000, del 2015 e di inizio 2018. Un breakout storico, che ricorda vagamente quanto occorso allo S&P500 quando, nel 2013, superò i massimi del 2000 e del 2007.
Da allora non ha smesso di salire. Certo impressiona la performance degli ultimi dodici mesi; ma in buona misura essa è il riflesso del precedente bear market: fu quella l’anomalia, ora corretta. Infatti, se ragionassimo in termini di performance annualizzata degli ultimi tre anni, otterremmo un ordinario +14.5%: un saldo considerevole, ma sensibilmente inferiore al guadagno messo a segno dagli investitori sul finire degli anni Novanta. Un +30%, quello conseguito allora, che risulta duplice rispetto alla performance degli anni recenti. Non ci sono più le bolle di una volta.
Questa contabilità spicciola di sicuro non persuaderà i media, a caccia continua della notizia acchiappa click. Sempre pronti a stigmatizzare l'operato presuntamente inefficiente degli investitori che parcheggiano i risparmi sul conto corrente (ma con rendimenti in Italia negativi fino ai 5 anni; un deposito sicuro di liquidità che promette la restituzione integrale del capitale a vista è un ottimo affare); mai hanno avuto nulla da obiettare a proposito del comportamento autolesionistico di non pochi trader: che, lungi dal comprare azioni in tutti questi brillanti anni, hanno sciaguratamente venduto short ad ogni piè sospinto. I Tori sentitamente ringraziano.
Ieri si proponeva l’esempio dell’infima rilevazione della scorsa settimana del Sell/Buy ratio. Un rapporto elevato fra vendite ed acquisti di azioni da parte degli Insider avrebbe scatenato le fantasie perverse dei ribassisti. Il dato specularmente opposto passa ignorato. Al pari ad esempio della previsione ultrabullish formulata ieri da Bernstein: S&P500 a 8000 punti, fra dieci anni. Nessuna menzione.
Al di là della fondatezza di questa ipotesi, fa riflettere il disinteresse che suscita. Fossimo davvero ad inizio 2000, ci sarebbe una sequenza continua di previsioni analoghe, citate entusiasticamente a memoria dagli investitori: che correrebbero a comprare azioni. Nei cinque anni terminati a marzo 2000 la raccolta netta dei fondi comuni azionari americani risultò pari al 49% delle masse mediamente amministrate nel medesimo arco di tempo. Un’euforia dilagante. Oggi lo stesso dato si attesta mestamente al -17%: i piccoli investitori vendono, non comprano. Fateci sapere quando eventualmente si dovesse registrare il contrario.
Articolo a cura di Gaetano Evagelista
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