E invece forse si impegneranno a raddrizzare gli spread. La BCE potrebbe creare un nuovo strumento per l’acquisto dei debiti pubblici europei che maggiormente minacciano le politiche di trasmissione monetaria. Una lotta alla frammentazione, come è di solito definita, in pratica un contrasto degli spread qualora diventassero eccessivi, una barriera agli attacchi finanziari contro l’Eurozona.
Secondo il Financial Times (che cita diverse persone vicine al dossier) ormai la maggior parte del direttivo a 25 della Banca centrale europea sarebbe pronta a creare questo strumento per l’acquisizione di bond sovrani a rischio, come quello italiano, ma non solo.
Il rischio non è l’insolvenza ovviamente, ma il danno alla ripresa dei Paesi più indebitati da calibrare e comprimere al massimo mentre si normalizza la politica monetaria. Le maggiori economie dell’Eurozona sono tutte coinvolte, con la vistosa eccezione della Germania. L’Italia a fine 2021 aveva un debito/Pil del 150,8%, la Francia era al 112,9%, la Spagna al 118,4%, il Portogallo al 127,4% Certo la Grecia con il 193,3% è ancora un altro mondo, ma il problema del debito è diventato diffuso.
Un rialzo dei tassi anti-inflazione sembra sempre più necessario ma il rincaro del debito va limitato per non minare la ripresa, per non buttare il bambino con l’acqua sporca e piangere dopo lacrime di coccodrillo. Certo l’esplosione della guerra in Ucraina dopo la pandemia ha congelato il discorso sul Global Compact, il dibattito sulle regole di stabilità, anzi si progetta una revisione e forse il congelamento potrebbe arrivare al 2023.
Ma il problema sul mercato del debito pubblico europeo rimane e si ravviva a ogni nuovo allarmante dato sull’inflazione.
I prezzi infatti sono il nemico giurato della Bce, ma ormai da tempo la maggior parte degli stati membri dell’Eurozona ha un rapporto debito/Pil superiore al 60% e anche la virtuosissima Germania viaggia al 69,3 per cento.
Bisognerà assicurare una transizione ordinata nel nuovo ambiente di normalizzazione monetaria.
BCE, a che punto siamo
In realtà la notizia del Financial Times, pubblicata non casualmente in vista del prossimo incontro di politica monetaria della Bce di giovedì, non giunge del tutto inattesa, anzi.
Già la stessa Christine Lagarde, il numero uno della Bce, poco dopo il suo insediamento aveva dovuto in fretta e furia correggere un “non siamo qui per raddrizzare gli spread” con un più cauto difenderemo la corretta trasmissione della politica monetaria in tutta l’Eurozona.
Era circa la metà di marzo del 2020, la pandemia era appena scoppiata, i mercati supplicavano un volo di colombe e chiedevano certezze ovunque.
L’idea che la BCE ignorasse in concreto l’eventuale frammentazione dei rendimenti nell’Eurozona spaventò tutti. Il nostro spread salì a oltre i 284 punti base il 17 marzo.
Poi ci furono segnali di distensione, la BCE fabbricò il programma di acquisti flessibili contro la pandemia (il PEPP), si avviò una stabilizzazione relativa.
Oggi lo scenario è tutto diverso, ma si torna a parlare di spread. Non come durante la crisi del debito sovrano ovviamente, l’ombra della spaccatura dell’euro che allora aveva negli spread europei il suo cuneo, è assai più lontana oggi, se non del tutto cancellata dallo storico “Whatever it takes” di Draghi del 2012.
Il peso dei rendimenti chiesti al debito dei vari membri dell’Eurozona resta però concreto.
In queste ore il rendimento chiesto al BTP decennale italiano sale ancora al 3,48%, su livelli che non si vedevano dal 2018. Sono ormai da tempo positivi anche gli yield a 2 anni (1,19%) e a 5 anni (2,54%).
Un marziano potrebbe dire che finalmente tutta l’Europa ha ritrovato un rendimento, ma la verità è che questa fase fa davvero paura a tutti. In primis alla BCE, che ha avviato ormai da mesi una politica di normalizzazione ancora non approdata a un rialzo dei tassi, ma in accelerazione su questa strada.
La stretta sulle condizioni monetarie è partita a dicembre 2021, quando è diventato ormai innegabile che il problema inflazione nell’Eurozona non era temporaneo.
Dapprima la Bce ha annunciato che avrebbe concluso il piano di acquisti PEPP: si tratta del maggiore strumento anti-pandemia dell’Eurotower, un programma flessibile di acquisti che aveva raggiunto una dotazione da 1.850 miliardi di euro.
Alla fine di marzo di quest’anno è finito. Il reinvestimento degli asset accumulati durerà però (almeno per ora è questo l’annuncio) fino almeno a fine 2024. Non è inoltre esclusa (ma si fa sempre più improbabile) una riattivazione d’emergenza in caso di shock.
C’è poi il vecchio e caro APP (Asset Purchase Program) il “tradizionale” programma di acquisto di asset della BCE, per lungo tempo spina dorsale del quantitative easing del Vecchio Continente.
È il lascito più corposo dell’epoca dei tassi zero inaugurata con la crisi del debito sovrano. L’Eurotower ha già programmato il phase-out di questo programma.
Ad aprile il ritmo degli acquisti netti di asset è sceso a 40 miliardi di euro, a maggio a 30 miliardi di euro, questo mese di giugno saranno di 20 miliardi di euro al mese e molto presto nel terzo trimestre (ossia verosimilmente ai primi di luglio) cesseranno del tutto.
Il reinvestimento dei proventi provenienti dagli asset potrà però durare anch’esso per un periodo esteso, ben oltre i primi rialzi dei tassi. Si parla di qualcosa come 3,218 miliardi di euro, una montagna di soldi insomma.
BCE: le condizioni e le previsioni sul rialzo dei tassi
Quindi gli acquisti stanno rapidamente terminando e si guarda a un prossimo rialzo dei tassi: probabile che parta a luglio.
Le condizioni per questo la Lagarde le ha già ripetute in passato, sono essenzialmente 3: che l’inflazione raggiunga il target simmetrico del 2% ben prima dell’orizzonte temporale delle proiezioni macroeconomiche dello staff della Bce, che questo target del 2% sia durevole per il resto della proiezione, che i segnali che giungano dall’inflazione core (underlying) siano coerenti con una stabile convergenza dei prezzi verso il target.
Beh ci siamo: a breve saranno pubblicate le nuove proiezioni macroeconomiche e si potrebbe arrivare alle condizioni sufficienti per promuovere in linea con la forward guidance il primo rialzo dei tassi.
Attualmente lo scenario base dello staff macroeconomico (proiezioni di marzo) stima un’inflazione al 5,1% nel 2022, al 2,1% nel 2023 e all’1,9% nel 2024, ma le cose da marzo a oggi sono peggiorate sul fronte dei prezzi.
Con l’inflazione headline esplosa all’8,1%, oltre quattro volte l’obiettivo, e l’inflazione core al doppio dell’obiettivo (al 3,8%), la situazione si è fatta però rovente e l’accelerazione restrittiva si è fatta decisa, sebbene meno stringente di quella della FED dato il diverso posizionamento di ciclo economico.
La maggior parte degli analisti stima ormai per luglio un aumento dei tassi, il dubbio secondo molti non è più se, ma quanto, se da una quarto o da mezzo punto percentuale.
Sembra chiaro ormai che almeno ci saranno due aumenti dei tassi entro la fine di settembre. Quindi uno a luglio e uno a settembre, due aumenti dei tassi che sono ormai il benchmark che potrebbe però essere rivisto al rialzo all’occorrenza, in caso specialmente di ulteriori fiammate dell’inflazione che sembra scatenata.
Per Robert Holzmann, membro austriaco del direttivo sarebbero auspicabili almeno tre rialzi quest’anno con l’obiettivo di tassi all’1,5% o oltre nel 2023.
La stretta della BCE: i contro
Gli effetti di una stretta monetaria rapida però potrebbero avere diverse conseguenze negative o persino dimostrarsi non solo inadeguati, ma anche dannosi nell’attuale contesto.
Va infatti ricordato che l’aumento dei rendimenti nell’Eurozona è già stato consistente negli ultimi mesi e ha incorporato i dati sempre più preoccupanti che arrivavano dai prezzi.
Per gli stati europei più indebitati e quasi tutti hanno problemi di debito nel post-pandemia, condizioni più sfidanti di rifinanziamento potrebbero comportare grosse difficoltà rallentando la loro capacità di finanziare la ripresa.
Se poi il costo del denaro salisse troppo, il peso del debito aumenterebbe ancora di più e rischierebbe di mandare KO un po’ tutte le strategie, probabilmente con impatti asimmetrici che minerebbero la stessa capacità di trasmissione della politica monetaria della BCE. Ma c’è di peggio.
È infatti sensato dubitare della reale efficacia di una stretta monetaria nell’attuale contesto.
La maggior parte dell’inflazione Ue viene infatti da fattori esogeni, come il prezzo dei beni energetici, aumentato già prima della guerra in Ucraina e peggiorato con lo scoppio del conflitto. Parliamo di una grossa componente dei rincari, ossia del 40% quasi, ma essendo i prezzi dell’energia nei mercati internazionali fuori dal controllo delle variabili in mano all’Eurotower, si rischia di mancare il bersaglio, di non ottenere insomma effetti concreti sull’inflazione incassando però i danni di una stretta.
Certamente un euro più forte consentirebbe di comprare più energia, ma il lato positivo di queste transazioni sarebbe esportato, un deflusso dall’Area della moneta unica, una “trade tax” che in pratica arricchirebbe i fornitori, ma non certo l’Europa.
Il rischio che le tensioni sui prezzi dell’energia si allarghino all’alimentare sta inoltre crescendo e presenta le stesse problematiche. Sicuramente bisognerà ragionare sulle specificità di queste circostanze straordinarie.
Un nuovo strumento di controllo degli spread nell’Eurozona tramite acquisti potrebbe ancora contrastare le ben note spinte speculative, potrebbe avere le caratteristiche di elasticità del PEPP, ma di certo il pericolo di attrito con l’attuale statuto della Banca centrale potrebbe creare difficoltà e il modo in cui sarà progettato potrà fare la differenza tra il successo e l’insuccesso di questo ritorno a tassi positivi che avviene in terra sconosciuta.
@Foto articolo