CAPITOLO 2 - TECNICHE DI ANALISI FONDAMENTALE
2.2.3 Il metodo di mercato
Il
metodo di mercato consente di determinare il valore teorico di un titolo
azionario utilizzando coefficienti moltiplicativi di alcune quantità aziendali.
L'approccio dei moltiplicatori assume implicitamente che "...l'impatto
dei tassi di crescita, del rischio e della politica di dividendo sia sintetizzato
nel coefficiente moltiplicativo..." (27).
Tradizionalmente
gli investitori hanno utilizzato i modelli basati sui rapporti Prezzo/Utili
ed è a tale argomento che sarà dedicata la maggior attenzione nel seguito;
per completezza viene presentato però almeno un quadro riassuntivo (in
figura 2.14) degli strumenti utilizzabili per operare secondo la logica
del metodo di mercato.
L'obiettivo
primario degli indicatori è quello di costituire un punto di riferimento
per l'analista, nel calcolo del prezzo futuro di un titolo:
E'
necessario pertanto determinare il valore standard dell'indicatore e stimare
l'utile, il cash flow, il book value prospettici.
Figura 2.14 Indicatori e metodo di mercato
L'indicatore
Prezzo/Utili (Price/Earnings) si ottiene dividendo il prezzo del
titolo (a) per l'utile per azione relativo all'ultimo bilancio (b) per
l'utile per azione previsto per i prossimi 12 mesi (c) per l'utile per
azione medio previsto per i prossimi cinque o sei anni (d) per l'utile
per azione atteso per un determinato anno obiettivo.
L'indicatore
P/E costituisce dunque il prezzo di mercato per ogni lira di utile. In
un certo senso il rapporto P/E non è altro che il periodo di recupero
monetario dell'investimento nell'ipotesi che l'unica forma di redditività
dell'investimento siano gli utili, che gli utili siano costanti e che
tutti gli utili vengano distribuiti.
L'indicatore
P/E, oltre ad essere sintetico, semplice e comprensibile, presenta altri
notevoli pregi; in primo luogo è un utile standard per il confronto di
titoli azionari con diversi livelli di utili per azione, dato che si esprimono
in termini relativi rispetto al prezzo. Presenta poi tradizionalmente
una maggiore diffusione come supporto decisionale per gli investitori
rispetto ai dividend discount model; questo deriva, oltre che dalla
maggiore semplicità, anche dal possibile utilizzo per i titoli che non
pagano dividendi. In terzo luogo, le stime da utilizzare come input nei
modelli basati sul rapporto P/E sono generalmente più facili rispetto
alle previsioni necessarie nei modelli di attualizzazione dei dividendi.
D'altro
canto il rapporto prezzo/utile può anche dare una visione distorta del
valore relativo di un titolo azionario, a causa delle tecniche contabili
differenti utilizzate dalle diverse aziende o dalla stessa azienda nel
tempo; inoltre, l'indicatore P/E è tipicamente costruito sui risultati
passati, mentre all'analista interessa la performance futura dell'azienda.
Per
questi motivi la costruzione di un corretto rapporto P/E riferito ad una
determinata società quotata dovrebbe sempre osservare alcune regole fondamentali;
innanzitutto considerare utili attesi, che tengano conto delle informazioni
più aggiornate; in secondo luogo utili normalizzati, depurati cioè
da eventi straordinari e da politiche di bilancio aziendali; in terzo
luogo utili che riflettano il livello medio e il trend di evoluzione dei
risultati attesi, cercando di comprendere se l'utile registrato ha capacità
di ripetizione in futuro; infine, secondo alcuni autori (28),
prendere in considerazione il risultato netto che si otterrebbe correntemente
in un'economia di metà ciclo economico.
Prima
di entrare nel dettaglio dei modelli teorici che stanno alla base del
rapporto P/E, è opportuna qualche considerazione intuitiva sul possibile
utilizzo a fini operativi.
In
genere, quanto più gli investitori sono certi che una società continuerà
a crescere, tanto più saranno disposti a pagare per ciascuna lira di utili
correnti per azione. In altre parole, più gli investitori sono ottimisti
sul futuro di una società, tanto più alto sarà il P/E. I problemi nascono
inevitabilmente quando gli investitori sono troppo ottimisti: la
più grande società al mondo può corrispondere alla peggiore azione da
acquistare se il prezzo è troppo alto.
Prendiamo
il caso dell'Ibm nel 1961; Big Blue aveva registrato profitti crescenti
al ritmo del 25% annuo per otto anni e questa tendenza sarebbe proseguita
fino all'inizio degli anni '70. La quotazione azionaria precipitò però
dal massimo storico del 1961, fino a perdere più del 50% nel 1962. Il
miglior segnale d'allarme fu certamente l'indice P/E, che registrava valori
insostenibili prossimi a 70; è importante ricordare altresì il valore
relativo del P/E, tre volte superiore a quello del titolo medio quotato
nello S&P400.
Di
fatto nella storia della borsa l'acquisto a bassi P/E e la vendita ad
alti P/E non hanno quasi mai ingannato gli azionisti (29).
Basti solo ricordare che al superamento
del P/E medio di mercato di 18 negli Stati Uniti è corrisposto il massimo
borsistico dell'agosto 1987; considerando che il P/E medio di 18 è stato
superato solamente tre volte negli ultimi 60 anni, disinvestire a quel
livello sarebbe stato logico ed anche conveniente.
In
Figura 2.15 viene rappresentato l'andamento del titolo Fiat unitamente
a quello del rapporto prezzo/utile della società; all'andamento crescente
delle quotazioni si accomuna chiaramente un incremento del rapporto, dato
il costante rialzo del numeratore. Quando però il rapporto sale oltre
i limiti accettati dal mercato (15 volte gli utili), cominciano ad esservi
le prime avvisaglie di una possibile inversione; per Fiat un P/E pari
a 24 costituiva certamente un campanello d'allarme: gli investitori più
avveduti si liberarono del titolo ai prezzi massimi.
Figura 2.15: Quotazioni del titolo Fiat e relativo rapporto P/E
D'altra
parte si nota come, in alcuni casi, il prezzo di un titolo azionario continui
ininterrottamente il rialzo nonostante abbia raggiunto dei livelli di
P/E piuttosto elevati. In tali situazioni è bene ricordare che alcune
società prediligono la crescita patrimoniale a quella degli utili e quindi
il valore della società può essere meglio definito da grandezze come ad
esempio Prezzo/Cash Flow, anch'essi da rapportare alla media di
settore.
Dopo
queste considerazioni di carattere generale, vediamo di sviluppare un
fondamento teorico ai modelli P/E, partendo dal modello dei dividendi
in crescita costante sviluppato nei paragrafi precedenti:
(13)
Sapendo
che i dividendi possono essere espressi come utili (E) moltiplicati per
il payout (b) e riesprimendo quanto ottenuto in termini di P/E, il modello
a crescita costante risulta essere:
(14)
In
base all'equazione (14), più alto è il payout più elevato è P/E; una relazione
positiva sussiste anche tra tasso di crescita e P/E, mentre sono inversamente
correlati tasso di sconto e P/E.
Le
suddette relazioni sono state però esplicitate prendendo in considerazione
l'effetto di una delle tre variabili, sotto l'ipotesi che tutto il resto
rimanga costante; si può immaginare invece che un aumento del payout possa
influenzare negativamente la crescita, perché distoglie fondi da investimenti
potenzialmente profittevoli. Tale considerazione era già stata esaminata
in precedenza, parlando di tasso di crescita sostenibile, e ipotizzando
che g potesse essere espresso dal rendimento del capitale proprio
moltiplicato per il complemento ad uno del payout:
(15)
Sostituendo
l'equazione (15) nell'equazione (14):
(16)
Dalla
(16) deriva perciò che la relazione tra payout e P/E non è ben
definita. Ma l'analisi può essere ulteriormente approfondita, ricordando
che l'indice ROE può essere espresso come funzione del rendimento dell'attivo
dell'impresa (ROA) e de rapporto d'indebitamento (L):
(17)
Sostituendo l'equazione (17) nell'equazione (16):
(18)
Nella
figura 2.16 vengono riassunte tutte le relazioni tra variabili determinanti
del rapporto P/E, secondo diversi livelli di analiticità.
Figura 2.16: Le determinanti dei P/E
Una
relazione di indeterminatezza sussiste quindi non solo tra payout
e P/E, ma anche tra rapporto d'indebitamento L e rapporto P/E: infatti,
se da un lato l'aumento dell'indebitamento, attraverso l'effetto leva,
esercita un effetto positivo sul ROE e quindi sul tasso di crescita g,
d'altro lato l'effetto leverage incrementa il rischio associato all'azione,
facendo aumentare β e di conseguenza il tasso di sconto. La relazione
tra indebitamento e rapporto P/E risulta quindi piuttosto complessa.
Il
metodo generale sopra esposto, volto ad identificare delle relazioni funzionali
formali tra determinate variabili e il rapporto P/E, permette solo di
pervenire ad un giudizio relativo (30)
del P/E (confrontato ad esempio con un indice settoriale). Non è possibile
infatti determinare il livello appropriato specifico per un determinato
titolo con una formula generica che, ricordiamo, è stata derivata dal
modello di Gordon, fondato sull'ipotesi forte e irrealistica di crescita
costante.
Un
metodo per costruire un modello che fornisca delle stime quantitative
specifiche dei rapporti P/E è di assumere che i P/E siano funzioni lineari
e additive di alcune delle variabili presentate in Figura 2.16 ed utilizzare
la regressione multipla cross section per stimare la relazione
media tra di esse. Innanzitutto è necessario raccogliere i dati sul P/E
effettivo e su tutte le variabili assunte esserne le determinanti per
un certo periodo di tempo e per un campione casuale di società, considerando
evidentemente il rapporto P/E come variabile dipendente. Quindi, utilizzando
la regressione multipla, stimare la relazione media esistente determinando
in questo modo il P/E teorico del titolo azionario; poi, dal confronto
con il rapporto prezzo/utili effettivo, si potrà giudicare se il mercato
sottovaluta la società (quando P/E stimato è maggiore di P/E effettivo),
oppure se la sopravvaluta (quando P/E stimato è minore di P/E effettivo).
Uno
dei primi studi ad utilizzare i modelli di regressione cross-section
è stato condotto da Whitbeck e Kisor (31).
La funzione lineare additiva stimata
utilizzando i dati di 135 titoli era la seguente:
(19)
Le
variabili dell'equazione (19) hanno il consueto significato, con l'unica
eccezione di d che rappresenta la deviazione standard attesa delle variazioni
degli utili per azione attorno al tasso di crescita stimato.
Si
noti come la funzione lineare (19) sia sostanzialmente coerente con il
modello teorico precedentemente sviluppato: il rapporto P/E dipende positivamente
dal tasso di crescita e dal payout e negativamente da una misura
di rappresentazione del rischio come d.
In
uno studio successivo Malkiel e Cragg (32) hanno stimato cinque equazioni di regressione
cross section per gli anni 1961-1965 su un gruppo di 178 titoli;
la variabile dipendente era il rapporto P/E, mentre le determinanti lineari
erano il tasso di crescita g, il payout b ed una misura di rischio
rappresentata dal b del titolo.
Anche
in questo caso i coefficienti della regressione furono del segno atteso
(positivo per tasso di crescita e payout e negativo per b); inoltre
il valore assunto dal coefficiente di determinazione (R2=0,75) indicava
che il modello spiegava gran parte della variabilità del rapporto P/E
(33).
Una
volta definito formalmente il rapporto P/E, dopo averne considerato le
possibili determinanti e dopo aver esaminato le tecniche di calcolo possibili,
veniamo all'obiettivo principale di questo come degli altri indicatori
coerenti con il metodo di mercato: costituire un punto di riferimento
per l'analista nel calcolo del prezzo futuro di un titolo. Tutto questo
si può esprimere semplicemente come segue:
(20)
E'
necessario pertanto stimare un'ulteriore grandezza, cioè l'utile prospettico
normalizzato. Ci sono sostanzialmente tre modi per determinare
gli utili futuri: l'utilizzo di un approccio contabile, l'impiego di un
modello matematico, oppure una previsione basata su giudizi discrezionali.
Esaminiamo brevemente ognuno di essi, in quanto la bontà di una stima
(in questo caso il prezzo futuro) dipende dalla bontà degli input determinati
(cioè utili futuri e rapporto P/E);
- approccio contabile:
l'ipotesi sottostante è che la società continuerà a guadagnare lo stesso
margine percentuale su ogni vendita, così come ha sempre fatto in passato.
Una previsione delle vendite future consentirà di stimare anche gli
utili che ne derivano, assumendo pertanto che sia più facile prevedere
i ricavi di vendita, rispetto agli utili in modo diretto. La debolezza
intrinseca di questo approccio è sostituire il problema originario della
previsione degli utili, con il problema, non necessariamente più semplice,
della previsione delle vendite e dei margini di profitto.
- modello matematico:
gli utili futuri vengono previsti sulla base dei modelli statistici
di analisi delle serie storiche. Tra i metodi più diffusi, l'analisi
di regressione determina la miglior interpolante della serie storica
degli utili; l'affidabilità dei risultati dipende però dal valore del
coefficiente di determinazione R2 , misura della variabilità degli utili
futuri spiegata dalla variabile indipendente utili passati.
- approccio discrezionale:
questo approccio implica i due precedenti, ma tali tecniche sono utilizzate
solo a scopo informativo. Infatti, come si può intuire, la previsione
discrezionale si basa in ultima analisi sul giudizio informato
dell'analista. Per questo motivo entrano in gioco ulteriori variabili
che possono condizionare le prospettive future della società, quali
la stabilità finanziaria, il previsto posizionamento dell'azienda rispetto
alla concorrenza, la qualità del management, l'andamento della quotazione
azionaria,...
Non
va dimenticato peraltro che molti studi (34)
hanno individuato coefficienti di autocorrelazione
prossimi allo zero nell'analisi delle serie storiche degli utili. Una
simile mancanza di autocorrelazione è stata trovata anche per le serie
storiche di altre variabili finanziarie rilevanti, quali le vendite, gli
utili operativi e gli utili ante-imposte. Sembra quindi probabile che
le previsioni degli utili prospettici basate sulla semplice estrapolazione
dei tassi di crescita storici siano di scarso valore; sebbene l'andamento
passato possa fungere da utile punto di partenza, previsioni migliori
si dovranno basare su di una più ampia varietà di variabili economiche.
E' certamente preferibile quindi il terzo approccio suddetto, mentre il
metodo contabile o matematico possono costituire al più un arricchimento
dell'insieme informativo di supporto alla decisione.
Per
concludere la parte dedicata al rapporto Prezzo/Utili e più in generale
al metodo di mercato, presentiamo brevemente un caso concreto di determinazione
del valore di un titolo azionario attraverso il prodotto tra un coefficiente
moltiplicativo (nella fattispecie P/E e P/CF) ed una quantità aziendale
(in questo caso Utile e Cash Flow). In questo caso lo spunto per la valutazione
proviene dalla privatizzazione e dall'ingresso al listino del colosso
petrolchimico Eni, in precedenza non quotato; nel novembre 1995 l'analista
doveva valutare se il prezzo di collocamento del titolo azionario nell'ambito
dell'offerta pubblica di vendita era congruo rispetto al valore della
società sottostante.
Uno
studio elaborato da Caboto Sim ha tentato di valutare l'azienda suddividendola
per singole aree di business; l'analisi è stata condotta utilizzando le
stime di consenso sui rapporti prezzo/utili (P/E) e prezzo/cash flow (P/CF),
rilevate a livello europeo per ogni area strategica d'affari. Ad esempio
(come riportato in Figura 2.17) il settore della distribuzione del gas,
nel quale opera Snam, contribuisce per il 30% al margine netto consolidato
dell'Eni ed ha multipli più elevati sia in termini di P/E che in termini
P/CF, rispetto alla chimica di base. Il settore che invece contribuisce
maggiormente al margine operativo netto è quello petrolifero (Agip ed
Agip petroli) con il 50%, mentre risultano poco influenti l'ingegneria
e l'impiantistica di Saipem e Snamprogetti.
Figura 2.17: Analisi fondamentale per area di business
Per
giungere ad una valutazione aggregata del colosso petrolchimico è stata
successivamente elaborata una media ponderata nella quale i pesi dipendono
dalla contribuzione al margine operativo delle singole aree strategiche
d'affari. Si è così arrivati ad un P/CF pari a 4,7 ad un P/E pari a 11,3;
viste le previsioni per il cash flow (10.500 miliardi) e per l'utile netto
(4.150 miliardi) è agevole calcolare un prezzo obiettivo medio di 6016
lire. Il collocamento di Eni a 5250 lire per azione evidenziava, secondo
questo tipo di analisi, una potenziale sottovalutazione del 15%.