Rassegna Settimanale News Finanziarie - 12 Aprile 2025

Michele Clementi Michele Clementi - 12/04/2025 07:11

Improvvisa impennata nei rendimenti dei Treasury USA: cosa sta succedendo?

Durante la settimana, i rendimenti dei Treasury statunitensi – i titoli di Stato americani – hanno registrato un’improvvisa impennata, un comportamento piuttosto inusuale in un contesto di tensione sui mercati finanziari. Tradizionalmente, infatti, i Treasury vengono considerati un bene rifugio, e in periodi di turbolenza gli investitori tendono ad acquistare questi titoli, facendo scendere i rendimenti.

Ma cosa c'è dietro questa dinamica anomala?

Una prima ipotesi, di natura geopolitica, punta il dito contro la Cina. Il governo cinese potrebbe aver iniziato a vendere una parte delle proprie riserve in Treasury in risposta ai nuovi dazi americani del 145%, in un’escalation delle tensioni commerciali tra le due potenze, con dazi al 125% sui prodotti Usa ed altre restrizioni.

Un’altra spiegazione, più tecnica, riguarda gli hedge fund. In seguito ai recenti crolli di mercato, molti fondi speculativi hanno dovuto reintegrare i margini richiesti per le loro operazioni in derivati. In questi casi, gli strumenti più liquidi – come i Treasury – vengono spesso venduti per ottenere rapidamente la liquidità necessaria a ripristinare le garanzie.

Infine, c’è una lettura più sottile ma altrettanto significativa: le difficoltà riscontrate dal Tesoro USA nelle ultime aste di collocamento. I nuovi titoli emessi per sostituire quelli in scadenza non hanno trovato una domanda solida. Sia gli investitori stranieri, preoccupati da possibili ritorsioni politiche, sia i privati americani, spaventati da un possibile ritorno dell’inflazione e da tassi d’interesse più elevati, si sono mostrati più cauti del solito.

In sintesi, la fiammata dei rendimenti sui Treasury potrebbe essere il risultato di una combinazione di fattori: tensioni geopolitiche, esigenze tecniche di liquidità e segnali di sfiducia nei confronti della stabilità finanziaria e monetaria degli Stati Uniti.

Von der Leyen non fa inchini a Trump: strategia europea per ridisegnare gli equilibri globali

La Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, non sembra affatto intenzionata a piegarsi al volere di Donald Trump. Niente inchini, né tantomeno baci di rito: piuttosto che rincorrerlo per un appuntamento secondo le regole del vecchio galateo – dove spetta all'uomo fare la prima mossa per non compromettere la propria reputazione – Von der Leyen si sta muovendo per isolarlo, mettendo in campo una strategia geopolitica audace.

Trump si considera ancora il “re” della trattativa globale, ma i tempi cambiano. È vero: Wall Street rappresenta il 70% della capitalizzazione finanziaria mondiale. Tuttavia, questa cifra imponente corrisponde a malapena al 25% del PIL globale. Un dato che invita a riflettere. Il PIL, che misura la somma dei beni e servizi prodotti in un territorio, oggi è anche – e soprattutto – un indicatore della spesa per consumi nei Paesi avanzati.

Cosa accadrebbe se una parte significativa della finanza mondiale si spostasse verso altri mercati? Se quei mercati, improvvisamente arricchiti da nuovi capitali, decidessero di stimolare la propria domanda interna per rimpiazzare proprio quel 25% che Trump continua a considerare il centro del mondo?

In quest’ottica, Von der Leyen si muove con "disinvoltura" diplomatica. Ha avviato negoziati per un accordo di libero scambio con l’Arabia Saudita (nell’ambito del Consiglio di Cooperazione del Golfo), e in termini di savoir-faire potrebbe persino superare i più “affabili” Renzi e Meloni. Dopo il Giappone, ha messo in agenda un incontro con Pechino, con l’intento nemmeno troppo velato di costruire un fronte comune per riequilibrare il peso degli Stati Uniti. Ha anche ipotizzato l’abolizione dei dazi sulle auto elettriche cinesi in cambio dell’apertura di stabilimenti produttivi in Europa. Non solo: ha minacciato tasse sui profitti delle big tech americane e si è rivolta a Mario Draghi per sondare la possibilità di organizzare – tramite lui – un incontro con Trump. E chissà cos’altro bolle nella pentola di Ursula, certo non un piatto di spaghetti.

In questo scenario, però, non ci saranno vincitori. È una partita che ridisegna l’ordine globale. E per chi, come me, pensava di avviarsi serenamente alla pensione ascoltando Born in the USA di Bruce Springsteen, è uno shock accorgersi che il mondo sta cambiando. Forse avrei dovuto capirlo già la scorsa estate, quando mi sono ritrovato a ballare sulle note elettroniche di Peggy Gou.

Curiosità:

Il nonno di Donald Trump, Friedrich Drumpf, emigrò dalla Germania negli Stati Uniti nel 1885. Curiosamente, era cugino di Henry John Heinz, fondatore della celebre azienda alimentare, da parte di madre. La famiglia materna di Trump ha invece origini scozzesi.

Trump ha avuto tre mogli e cinque figli. La prima, Ivana Trump, commentò ironicamente il divorzio con una frase rimasta famosa: “Non prendetevela, prendetevi tutto”.

Stabilire con precisione il patrimonio di Donald Trump è difficile, ma si sa che ereditò dal padre un consistente portafoglio immobiliare, composto principalmente da case popolari a New York. A soli 22 anni, utilizzò questi beni come garanzia per ottenere finanziamenti e lanciarsi così nei suoi ambiziosi progetti di immobili di lusso.

Pochi sanno che da giovane fu una promessa del baseball: ai tempi della New York Military Academy, era considerato un lanciatore così talentuoso da poter aspirare alla Major League. Nonostante il suo stile di vita sopra le righe, Trump non fuma e non beve alcolici. È invece un grande appassionato di golf, sport che pratica regolarmente e per il quale ha progettato diversi campi, tra cui uno in Scozia, premiati per la qualità e il design.

La sua passione per il wrestling lo ha portato, pur senza combattere mai sul ring, a essere inserito nel 2013 nella WWE Hall of Fame, grazie al suo contributo promozionale alla disciplina.

Nel mondo dello spettacolo, Trump vanta anche una Stella sulla Hollywood Walk of Fame. Non per il suo cameo nel film Mamma ho riperso l’aereo, ma per il ruolo di conduttore nel reality The Apprentice, che ottenne un enorme successo e contribuì alla sua popolarità.

Come se non bastasse, nel 1987 pubblicò il libro The Art of the Deal, che vendette milioni di copie e resta ancora oggi un best seller per chi è interessato al suo approccio al business e alla negoziazione. E forse, oggi, il mondo sta conoscendo il suo stile senza nemmeno dover leggere il libro.

LA SETTIMANA IN BORSA

Terza settimana consecutiva in rosso per le Borse europee, mentre Wall Street risale dai minimi

Le Borse europee chiudono la terza settimana consecutiva in calo, in un clima di crescente incertezza globale. Al contrario, Wall Street mostra segnali di ripresa, spinta da dichiarazioni distensive di Trump che lasciano intravedere una possibile tregua con la Cina. Tregua sì, ma senza illusioni: la Cina ha dimostrato di non essere un partner remissivo nella trattativa sui dazi. Ha risposto colpo su colpo, altro che "baci nel sedere".

Ecco i principali dati di performance settimanali:

  • Nasdaq: +7,43%
  • S&P 500: +5,7%
  • MSCI World: +4,36%
  • DAX (Germania): -1,31%
  • Eurostoxx 50: -1,88%
  • Mercati Emergenti: -3,90%
  • MSCI China: -7,91%

I prezzi oggi appaiono interessanti, soprattutto se confrontati con un passato recente in cui l’inflazione puntava stabilmente verso il 2% e il PIL cresceva a ritmi superiori al 2%. Ma quel mondo è finito — almeno per ora. Oggi il mercato globale è paralizzato. Proprio come durante il Covid, tutto si è fermato, in attesa di chiarezza sul fronte commerciale.

Basta un esempio per capire l’effetto domino: se manca anche solo un bullone, un'intera catena produttiva si blocca. È già successo: ricordate le automobili nuove che non venivano consegnate per l’assenza di chip elettronici? Non sono passati decenni: parliamo di due anni fa. E quanto potrebbe costare quel bullone mancante? Tanto, e a pagarne il prezzo saremo ancora noi — sotto forma di inflazione, quella “tassazione invisibile” su cui gravano altre tasse.

Se nei prossimi 90 giorni non si trova un accordo concreto, l’economia rischia una lunga fase d’attesa. Sembra quasi che serva un vaccino, ma non contro un virus: contro Trump e la sua visione di un nuovo ordine mondiale. Una visione che, per carità, qualche ragione di fondo ce l’ha: l’America si è fatta carico di molte responsabilità globali, diventate poi diritti acquisiti per chi ne ha beneficiato. Ma da qui a pensare che il mondo intero debba inginocchiarsi e fare la fila per baciargli il sedere… ce ne passa.

Va anche considerata l’evoluzione di Trump stesso: nel primo mandato misurava la sua popolarità in base alla crescita dei mercati. Ora sembra fregarsene, e anzi, evoca una recessione e un crollo delle Borse come se fossero passi necessari per "rendere l’America di nuovo grande".

Un cambio d'immagine che ha spiazzato persino i suoi investitori, quelli che mai si sarebbero aspettati un simile ribaltamento. Anche Tesla ne paga le conseguenze indirettamente: oggi le assicurazioni chiedono premi più alti, con rincari del 30% per la copertura da atti vandalici.

Pressioni interne al suo stesso partito sono sempre più probabili. I finanziatori iniziano a perdere la pazienza e potrebbero forzare un cambio di rotta, ben prima delle elezioni di Mid Term (che sono ancora lontane). Se il Congresso non lo sostiene più, anche il Presidente può essere messo in difficoltà.

Detto questo, i prezzi oggi sono attraenti. Ma come ripeto sempre: sì, nel lungo periodo i prezzi tendono a salire, ma bisogna ricordare che nei prossimi dieci anni ci saranno almeno tre crisi. Negli ultimi cinque anni ne abbiamo avute tre — un’anomalia storica — quindi non diamo per scontato che la crescita sarà lineare. Prima di risalire, serve che l’economia riparta davvero.

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