In dieci anni il mercato azionario americano ha regalato una performance annuale media del 15.1%; titoli di Stato e bond, del 3.0%; commodities, del +1.25%. Eppure, sempre più operatori perseguono la chimera dell'individuazione vana del top.
Aggiorniamo dunque il conteggio dei nuovi massimi storici raggiunti dallo S&P500, che si lascia con noncuranza alle spalle anche la mitica soglia dei 4300 punti. In otto sedute l’indice mette a segno un progresso di oltre 150 punti: merito della paziente opera di consolidamento sperimentata nei due mesi compresi fra la seconda metà di aprile e la prima metà di giugno. Uno schema ripetitivo: a Wall Street – ma anche a Francoforte, ad esempio – con gli indici che appaiono incerti, alimentando fra trader poco smaliziati la parvenza di un contesto fragile, vulnerabile, con tanto di divergenze bearish; laddove al contrario si delineano delle irregular correction (tanto per restare nel mistico mondo dell’analisi tecnica), sintomo di un mercato fortissimo, preludio alle successive gambe di rialzo.
Il nuovo massimo storico con cui Wall Street ha inaugurato questo secondo semestre, oltretutto celebra al meglio ben cinque mesi positivi di fila: una sequenza che esalta chi è investito in borsa da tempi non sospetti, ma sorprendentemente non impensierisce più di tanto chi è rimasto finora a guardare, quando non ha assunto posizioni sciaguratamente opposte. La statistica ancora una volta corre in soccorso dei primi, come commentiamo nel Rapporto Giornaliero di oggi.
Impietoso il confronto con le altre forme di investimento: in termini total return il mercato azionario americano ha corrisposto una performance media annualizzata del +17.6% negli ultimi cinque anni e del +15.1% negli ultimi dieci anni. Nei medesimi archi temporali il Bloomberg Barclays ha corrisposti saldi medi annualizzati del +3.0 e del +3.4%, rispettivamente; mentre il Bloomberg Commodity Index, nonostante la fiammata delle materie prime degli ultimi cinque trimestri, ha perso vistosamente terreno negli ultimi cinque anni (-5.0%), mentre in dieci anni ha guadagnato appena l’1.25% annualizzato. Non c’è stata partita: hanno vinto le azioni.
Bisogna riconoscere che l’exploit azionario di questi mesi non sorprende per nulla. A febbraio, mentre come sempre la condivisione di paragoni tanto infausti quanto improbabili con epoche passate, risultava più virale del più famigerato ceppo patologico; ci soffermavamo sui periodi di mercato dalla somiglianza statistica oggettivamente più verosimile.
Ne derivava una proiezione futura, che suggeriva per la fine di giugno una crescita per lo S&P500 del 10%: esattamente quanto conseguito dall’indice, come si può apprezzare dal rapporto di oggi: che illustra la tendenza attesa per i prossimi mesi. Ci sarà da divertirsi.
Articolo a cura di Gaetano Evangelista
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