La borsa americana sale grazie (o malgrado) al FANG?

Gaetano Evangelista Gaetano Evangelista - 03/05/2023 10:36

Comprensibile il disorientamento di non pochi investitori. Specie coloro che da ottobre in avanti sono rimasti a guardare: nessuna recessione, nonostante innumerevoli profezie di sventura. Nel frattempo, la paventata apocalisse degli EPS non c’è stata. Anzi.


Le borse europee hanno (ancora una volta) primeggiato nel passato mese di aprile, ma ciò che più conta è stato il sospirato saldo positivo messo a segno dallo S&P500. Non che la circostanza fosse inattesa – dal 1950 lo S&P500 è salito in tutti i casi tranne uno nei mesi di aprile degli anni pre-elettorali – ma la tensione era legittima alla luce delle turbolenze nel settore bancario.

Molti investitori dunque stamattina si chiedono: se Too Big To Fail siano gli istituti di credito, o non piuttosto le grandi compagnie tecnologiche, così determinanti ai fini della performance dei listini americani. Il ragionamento è che se le banche fossero risultate determinanti, il fallimento di Credit Suisse avrebbe provocato un crollo incomparabilmente superiore a quello seguito alla fine di Lehman; specie dopo lo spregiudicato aumento dei tassi di interesse disposto dalla Banca Nazionale Svizzera poco dopo.

La cartina al tornasole è rappresentata dal persistente contenimento degli spread creditizi in questi giorni. Dopotutto, dal massimo di febbraio 2007 le banche americane hanno perduto in borsa alla fine di aprile il 33%, e questo non ha impedito allo S&P500 di mettere a segno un guadagno del 186%, dividendi esclusi.

Il merito è senza dubbio riconducibile alle performance della tecnologia: nel 2023, in particolare. Le otto azioni del FANGMANT sono artefici di buona parte del saldo conseguito quest’anno dallo S&P500, ma ciò non è bastato all’indice per non rimanere clamorosamente fuori dal ranking per performance nel G25: dominato – ben 7 su 10 – dalle borse europee: dove Microsoft, Apple e soci non figurano di certo. Per cui il dubbio è: Wall Street sale grazie al FANG? o malgrado il FANG?...

Dubbi legittimi, alla vigilia di una finestra stagionale notoriamente difficile. Come tutti sanno a maggio i listini azionari riflettono, e questo è vero in modo particolare negli anni elettorali. Ma questo mese per lo S&P500 è risultato clamorosamente positivo in ben 9 degli ultimi 10 anni.

Comprensibile il disorientamento di non pochi investitori. Specie coloro che da ottobre in avanti sono rimasti a guardare. D’altro canto, è la prima volta nella storia che una curva dei rendimenti invertita, moneta e credito in restringimento, Leading Indicator e ora Philly Fed Index in pesante territorio negativo, non sono stati seguiti da una recessione e conseguentemente da una severa contrazione dei profitti aziendali.

Tutto il contrario: la paventata apocalisse degli EPS non c’è stata. Anzi il beat rate svetta ad un generoso 81%, quando la earnings season compie il giro di boa. Con la Fed che sta completando il suo lavoro restrittivo, l’equazione di mercato non può che giustificare, come sempre a posteriori, il rally degli ultimi sette mesi.

Alla fine tutto il merito è riconducibile all’analisi tecnica: l’unica che abbia suggerito la possibilità del completamento del bear market ad ottobre («fra il 10 ed il 13 ottobre», si ricorderà furono le parole profetiche impiegate allora) e della conseguente ripresa. Almeno fino ad ora: con il modello di asset allocation che proprio adesso, mentre il peggio finalmente pare alle spalle, suggerisce un vigoroso taglio dell’esposizione azionaria.

 

A cura di Gaetano Evangelista 

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