Chissà a quante persone è capitato, più o meno recentemente, di soffermarsi sull’etichetta inerente alla provenienza (intesa come luogo di produzione) di un paio di scarpe, piuttosto che di un tessuto, di un vestito o prodotti simili.
La classica scritta “Made in...”, ultimamente recita una dicitura diversa rispetto al solito.
Mentre prima, al posto dei puntini si trovava la scritta China o Repubblica Popolare Cinese, oggi, frequentemente, troviamo la dicitura Vietnam. Cosa è cambiato?
Mercati di frontiera: quali sono
Per capire le variazioni e i mutamenti che sono in corso, è necessario partire da una definizione fondamentale nell’ambito del business, ovvero: supply chain.
Cosa significa questo termine inglese? Null’altro che la filiera produttiva, ovvero il percorso che va dall’approvvigionamento delle materie prime, alla realizzazione del prodotto e al relativo stoccaggio, sino alla vendita dello stesso al consumatore finale, ovvero il cliente acquirente.
Ecco, proprio le problematiche afferenti alla supply chain, sorte in seguito al diffondersi della pandemia, hanno obbligato le aziende a diversificare i loro percorsi e a rivolgersi a nuovi mercati, visto il principale partner commerciale, ovvero la Cina, ha attuato una politica di chiusura ed ostinazione.
Trovandosi in difficoltà nel reperimento delle materie prime e della forza lavoro, le principali aziende mondiali, hanno quindi deciso di rivolgersi ad altri mercati, come quello vietnamita, ad esempio.
Ecco che quindi, gli elevati capitali affluiti e in afflusso verso Paesi come il Vietnam stanno determinando, per questi ultimi, tassi di crescita (e ritorni economici per gli investitori) davvero interessanti.
Viene da chiedersi: perché la definizione di mercati di frontiera e non mercati emergenti? Si tratta di un sinonimo oppure ci sono delle differenze?
I mercati di frontiera sono i fratellini più piccoli dei mercati emergenti, ovvero quei mercati che sono in fase espansiva ma ancora a livello iniziale ed hanno quindi, indici di capitalizzazione e presenza di capitali stranieri decisamente più bassi.
Sono quei mercati che, nel giro di qualche anno, aspirano a diventare emergenti.
Mercati di frontiera: come investire?
Negli ultimi dieci anni, le borse dei mercati di frontiera, hanno offerto ai propri investitori un rendimento medio intorno al 6,5% annuo (in euro).
Ovvio che la cosa faccia gola ed abbia attirato l’attenzione di un numero via via sempre maggiore di risparmiatori interessati. Per chi volesse avvicinarsi a questa tipologia di investimenti, le difficoltà maggiori stanno nell’individuare la composizione degli strumenti finanziari ad essi dedicati.
Problematiche riscontrate dagli stessi gestori in quanto i benchmark, ovvero i parametri di riferimento, cambiano con una rapidità molto elevata.
Capita infatti che nel giro di qualche anno, Paesi che facevano parte dei mercati di frontiera vengano “promossi” nella categoria di quelli emergenti.
Ecco che quindi, se non si segue attentamente la dinamica e l’evoluzione del settore, il rischio è quello di pensare di investire in certi mercati mentre in realtà, il fondo o lo strumento finanziario che si è scelto, ha cambiato (per necessità o per volontà) politica e composizione del proprio portafoglio.
Ad esempio, in una fase come quella attuale, alcuni Paesi del Medioriente, le cui divise sono ancorate al dollaro americano, potrebbero beneficiare enormemente del super biglietto verde.
Come evidenziato quindi, le opportunità ci sono; il problema è riuscire a coglierle in modo trasparente e consapevole. In ogni caso, occhi ben aperti e vigili: difficile, non significa impossibile.
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