Chip, nubi all’orizzonte per il settore tech

19/07/2022 14:50

Chip, nubi all’orizzonte per il settore tech

Nonostante risultati superiori alle attese sia sul fronte degli utili per azione che delle vendite, IBM ha perso nel post market dopo i dati il 4,32 per cento. Crescite delle vendite del 9% a 15,5 miliardi di dollari e dell’utile per azione del 43% a 2,31 dollari (prendiamo il NON-GAAP) non sono bastate.
Le nuvole erano già in cielo e le parole del management non le hanno dissipate. C’è infatti una serie di domande che il mercato da mesi si pone sul tech e le risposte infatti non sono piaciute. La prima riguarda il dollaro e quindi anche i tassi d’interesse.

È fuor di dubbio che un biglietto verde troppo forte appesantisce i margini dei titoli tecnologici e li penalizza nelle vendite all’estero, così come scava sul costo degli investimenti e del debito, appesantendone i bilanci. Il Wall Street Journal lo esemplifica con una triste teoria di annunci: Microsoft ha già tagliato a giugno le stime su utili e vendite del trimestre in corso a causa del dollaro forte.

Subito dopo ha annunciato il taglio di 1.500 posti per via delle attese negative sull’economia, una piccola quota dei suoi 181 mila dipendenti, ma comunque un numero importante e un segnale negativo.

Google ha già detto che ridurrà le assunzioni per il resto dell’anno, Facebook e la sua controllante Meta Platforms hanno detto che questo taglio delle assunzioni sarà netto.

Poi si potrebbero citare Twitter, Tesla, Netflix, Uber, GameStop, Nvidia, Micron. Tutte società che hanno rallentato le assunzioni o le hanno arrestate o stanno procedendo con dei licenziamenti.

E qui si passa all’economia.
Perché per molte è il contesto economico visto in calo alla base della “prudenza”, insomma la paura della recessione che si avvicina, come per Elon Musk.

C’è poi da aggiungere che molte società tecnologiche vengono dall’abbuffata del Covid, che mandò tutti a casa e pompò la tecnologia come non mai. Difficile ripetere quelle performance in tempi “normali”, soprattutto se crescono rapidamente i salari (cioè i costi) e le previsioni sulla domanda si comprimono.
Per il tech c'è però qualche specificità, per esempio la corsa precedente la crisi o anche le sfide di cui sopra. Non a caso il Nasdaq 100 quest'anno ha perso il 27,2% contro il 19,62% dell'S&P 500.

Tech, riflessi europei di una crisi globale

Oggi a Milano STM perde l’1,67%, a 32,1 euro circa dopo un affondo a 31,42.

Una performance non dissimile da quella del colosso tedesco Infineon, che cede l’1,21% e da quella dell’olandese ASML (-0,92%), un gigante dei semiconduttori che pochi conoscono, ma vale da sola in Borsa più del triplo di STM e Infineon messe assieme (ai corsi di oggi STM vale poco meno di 30 miliardi, Infineon 30,9 mld e ASML ben 193,5 miliardi di euro).
Ieri in fondo l’indice dei semiconduttori di Philadelphia aveva perso soltanto lo 0,53%, ma evidentemente il clima non è buono.

Tech, un reshoring sfidante

D’altronde lo scenario per l’industria elettronica statunitense (e quindi per una fetta imprescindibile dell’elettronica globale) resta incerto, mentre si affilano i coltelli sul Chip Act.

Come noto, è un pacchetto per il rilancio della produzione di microprocessori a stelle e strisce. Con quello che è successo in Ucraina e prima ancora con la chip shortage che banchetta ancora sui resti dell’industria automobilistica occidentale, tutti hanno pensato di riportare in patria parte di queste filiere strategiche e fragili.

Così il governo Biden ha messo in campo una proposta di 52,2 miliardi di dollari in sovvenzioni per il chip americano.

Il problema è che mentre l’America rischia la recessione, si intende in pratica regalare miliardi di dollari di denaro pubblico a industrie già fortemente redditizie e questo a qualcuno non piace. Perché lo Stato dovrebbe pagare il loro reshoring?
Qualcuno se lo potrebbe chiedere anche per l’auto europeo in pigra corsa verso l’elettrificazione, ma non è così semplice, anche perché i costi del reshoring (e i suoi tempi) probabilmente saranno anche maggiori.
Se poi si considera che nel pacchetto USA è previsto anche uno credito fiscale del 25%, si potrebbe facilmente arrivare a un finanziamento complessivo da 76 miliardi di dollari in cinque anni soltanto per l’industria del chip, che non piange di certo miseria.

Il problema è: lo farebbero senza questi soldi?
Un altro problema è, ma poi questi soldi resteranno davvero in America?

Perché uno dei vincoli che si vogliono mettere è che la destinazione di queste somme sia per aziende che non costruiscono all’estero, cosa facile da dirsi in teoria, ma non facilissima da applicare.

Un po’ perché tutte costruiscono o comprano in Asia, un po’ perché poi le filiere sono complicate e se a un certo punto ti serve un pezzo non puoi certo bloccare un impianto perché una vite non ha la bandierina giusta.

Certo il problema c’è: dal 37% del 1990 la quota di microprocessori Usa è scesa al 12%, anche se poi gli Stati Uniti dominano ancora largamente la progettazione dei chip e le forniture di materiali per la loro produzione.

Alla fine del primo trimestre del 2022 il colosso di Taiwan TSMC controlla il 53,6% dei ricavi da fusioni di semiconduttori, ossia la base della produzione mondiale di chip.

Se si considerano i microprocessori avanzati la quota del mercato globale del gruppo taiwanese è oltre il 90% Non può certo stupire che gli Stati Uniti vogliano difendere l’isola a tutti i costi dalle brame cinesi. Un monopolio di Beijing anche nei chip potrebbe farci persino più male del gas russo.

Ma non vanno dimenticati altri player di peso del semiconduttore come Samsung e UMC.
Né i policymaker statunitensi, né quelli europei vogliono o possono rinunciare a una qualche autonomia tecnologica.

Nel 2020 l’UE ha prodotto appena il 10% dei mille miliardi di semiconduttori prodotti in tutto il mondo, ma la fragilità delle supply chain l’ha spinta a promuovere il suo Chips Act europeo che mette in campo qualcosa come 43 miliardi di euro.

Anche qui sicuramente sbarcheranno i malumori e i timori sul rischio che questi soldi alla fine vadano in Cina o in Asia comunque.

Colossi come Intel o l’associazione SIA hanno già puntato i piedi su molti aspetti della riforma americana al vaglio del Congresso.
Fondi alla ricerca, rinunce a parte dei dazi sull’import cinese o scambi interessati sulle politiche doganali con la Repubblica Popolare faranno forse parte del pacchetto, ma di certo non si potrà prendere il mare con il retino.

Sarà complicato fissare quale rapporto con controllate o partner cinesi sia legittimo per ottenere i fondi pubblici e quale no.

Sarà difficile ridisegnare la filiera in chiave nazionalistica senza correre rischi anche eccessivi sulla competitività.

Rischi che - si sa - non pagano mai sul lungo periodo. E quando Huawei o TSMC apriranno una fabbrica di microprocessori negli Stati Uniti potranno farlo con soldi del contribuente americano?

E i nostri Paesi sono preparati all’impatto ambientale terrificante della produzione dei chip?

Nel frattempo in Cina fioccano  ">le multe su colossi prima intoccabili come Tencent e Alibaba.

I loro cali del 2,9% e del 5,8% a Hong Kong sono parte importante di questa storia. Chiamano in casa un attacco storico ai monopoli nazionali della tecnologia e al contempo una stretta su un settore strategico a più livelli. In fondo, come negli Stati Uniti e in Europa rimane una lotta per il controllo.

La confusione dell’epoca Trump quindi non è poi così lontana.
Di certo quest’estate anche il tech globale porterà qualche preoccupazione sotto l’ombrellone.

 

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© TraderLink News - Direttore Responsabile Marco Valeriani - Riproduzione vietata

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