Fa un certo effetto vedere le azioni Wirecard, il gioiello del fintech tedesco, perdere in poche sedute il 90% del proprio valore dopo che è emerso che i conti aziendali sarebbero più che dubbi.
A un più attento controllo la liquidità di 1,9 miliardi di euro vantata nei bilanci e pari a circa un quarto dell’attivo non si trova. Era riportata parcheggiata sulle banche nelle Filippine ma è dovuto intervenire lo stesso governatore del Bangko Sentral Pilipinas per smentire che questi fondi siano mai entrati nel sistema finanziario filippino. I banchieri filippini si sono pure premurati di spiegare poi che queste informazioni le avevano pure riferite allo storico revisore dei conti di Wirecard, una delle “big four” della revisione contabile mondiale, EY (Ernst & Young) e che nessuna delle banche filippine citate nei documenti di Wirecard aveva mai avuto rapporti con la società tedesca specializzata in pagamenti online: "il documento in cui si afferma l'esistenza di un account Wirecard con BDO, una banca filippina è un documento falsificato e reca firme contraffatte di funzionari bancari".
Nel 2004 era l’italiana Parmalat ramo lattiero-caseario ad aver organizzato una caccia al tesoro che sappiamo finì con un bel crac (si fa per dire).
I manager (il ragionier Tonna ma non solo) del devotissimo Calisto Tanzi si inventarono allora un fittizio conto corrente presso la Bank of America, intestato alla società Bonlat, con sede alle isole Cayman, in cui figuravano 3,9 miliardi di euro. Questo bastò a molte banche non solo italiane a continuare a erogare prestiti al gruppo Parmalat vista la presunta forte posizione finanziaria a livello consolidato. Una società che produceva latte seduta su un mare di liquidità. Un ragioniere di una volta si sarebbe domandato perché diamine prestare soldi a una società che diceva di avere tutta questa liquidità, dovendo pure pagare interessi superiori, ma noi non capiamo nulla di Alta Finanza.
Il documento del conto deposito di 3,9 miliardi di euro si rivelò poi un falso imbarazzante. Da un documento era stato preso il logo di Bank of America e con lo scanner e un computer i manager Parmalat avevano mescolato un documento di un’altra società con cifre inventate di sana pianta. La fantasia finanziaria a Collecchio correva e fra le invenzioni contabili anche 300mila tonnellate di latte in polvere che risultavano vendute dal gruppo al governo cubano tramite la Empresa Cubana Emportadora de Alimentos. Latte mai esistito, naturalmente.
Il fatto che un episodio del genere come quello di Wirecard sia successo ora in Germania molti anni dopo non ci deve forse sorridere ma forse porre diverse domande fondamentali sul “Ceo Capitalism”.
Felice definizione del sistema capitalistico vigente secondo Riccardo Ruggeri (ex ceo New Holland) e voce impertinente delle “classi dirigenti” che proprio settimana scorsa abbiamo intervistato su RadioBorsa. Questo podcast è un documento eccezionale per capire come diavolo siamo finiti a questo punto, noi italiani come il sistema capitalistico occidentale.
Schadenfreude è un termine tedesco che significa "piacere provocato dalla sfortuna" (altrui) e ci sono diversi commentatori che di fronte alla débâcle dei puntigliosi “pierini” tedeschi (così vengono descritti da alcuni) mostrano chiaramente questo sentimento. Certo comprensibile in un clima goliardico ma che non fa fare un grande progresso alla discussione e soprattutto a una migliore soluzione del problema se dopo Parmalat e prima Enron, 2 anni fa l’italianissima Bio-On (ed evitiamo di citare altre decine e decine di casi fra Londra, Parigi, Milano, New York e Toronto) ancora parliamo di conti aziendali di società quotate falsificati, frodando di fatto investitori come gli azionisti e i creditori. Stangate da miliardi di dollari.
Nel sistema dei controlli qualcosa evidentemente non funziona e chi dovrebbe controllare normalmente dice che la sua è una responsabilità limitata perché c’era qualcun altro che avrebbe dovuto controllare.
Le autorità di controllo (la Consob in Italia, la Bafin in Germania, l’AMF in Francia) scrollano la testa e dicono che si sono fidate di chi aveva certificato i conti e che il loro mestiere non è fare gli investigatori. “Sarebbe impossibile esercitare questa funzione visto il numero di società quotate e le loro partecipate e le centinaia di migliaia di transizioni”, il senso del loro scaricabarile.
Le società quotate hanno certo dei collegi sindacali che dovrebbero vigilare sui conti ma quando saltano fuori questi scandali si capisce che il loro ruolo è soprattutto decorativo per quanto costoso.
Ci sono le società di revisione che sono pagate per “garantire” la vericidità dei conti aziendali ma anche qui ogni volta partono i distinguo.
Il revisore spiega infatti che il suo compito non è fare il poliziotto ma verificare che ci siano tutte le carte a posto, fare qualche controllo a campione, e verificare che il sistema di controllo interno dei rischi dell’azienda sia fatto bene. Magari facendosi pagare per effettuare una bella consulenza su questo e altri aspetti della vita aziendale.
Morale: quando saltano fuori questi scandali il revisore è come Checco Zalone: “cade dalle nubi”.
Non si è accorto di nulla nonostante per molti anni abbia incassato compensi anche milionari per le attività di revisione e consulenza fornite. E’ pagato da chi dovrebbe controllare e qualcosa guarda un po’ gli sfugge e guai a chiamare questa cosa “conflitto d’interessi”.
Peraltro in questa vicenda che meriterà probabilmente un film la scintilla del falò inizia nel 2019 quando un giornalista del Financial Times pubblica il primo di una serie di articoli dove denuncia alcune possibili irregolarità contabili di Wirecard delle filiali asiatiche. Il titolo crolla del 30-40% e apriti mondo…
Wirecard nega tutto e si difende e denuncia il tentativo di speculazione e manipolazione del mercato attuata da un quotidiano finanziario straniero nei confronti di un campione tedesco di innovazione e perfino l’autorità di controllo tedesca gli va dietro aprendo una denuncia di “manipolazione del mercato” alla procura di Monaco. Il sospetto avanzato allora era che chi aveva scritto quell’articolo sul Financial Times avesse fatto sapere questa notizia ad alcuni operatori ribassisti che avrebbero poi guadagnato dalla discesa del titolo.
La stessa opinione pubblica tedesca si schiera contro il Financial Times per lesa maestà seppure alcuni investitori istituzionali chiedono a Wirecard di avere una seconda opinione a un’altra società di revisione, la KPMG, che impiega un bel lasso di tempo a evidenziare che in effetti esiste qualche problemuccio nei processi interni di Wirecard. Con il management di Wirecard che fino a settimana scorsa rassicurava tutti dicendo che le società di revisione erano pronte a dare un giudizio pià che positivo sui conti societari fatti “senza trucchi e senza inganni”.
Poi la bomba di questi giorni dove il revisore ufficiale EY è costretta ad ammettere che non può approvare il bilancio perché non trova dove sono finiti 1,9 miliardi di euro ("molto probabilmente non esistono” spiega in un’imbarazzante nota) e parte pure una “denuncia contro ignoti” da parte del Ceo di Wirecard per la sparizione della cassa).
La tragedia finanziaria diventa insomma farsa anche nell’austera Germania e sul banco degli imputati diversi osservatori ci mettono giustamente il sistema dei controlli che ha dimostrato ancora una volta di fare acqua da tutte le parti.
"I revisori contabili si fidano per natura dei loro clienti e dei documenti che ricevono da loro, e il conflitto di interessi è importante quando il cliente è grande. Per essere leali e affidabili, gli audit dovrebbero essere commissionati da associazioni professionali che includono tutti i concorrenti" ha suggerito sul quotidiano francese Les Echos, Matthieu Bailly, vice direttore generale e bond manager di Octo AM.
Il tema dei conflitti d’interesse delle società di revisione non è, infatti, nuovo e qualcuno ricorderà che già nella Grande Crisi del 2008 era venuto fuori prepotente questo tema come quello delle società di rating che fanno troppe parti in commedia. Quattro società di revisione mondiali e tre di rating (S&P, Moody's e Fitch) che dominano oltre il 90% del mercato mondiale.
Naturalmente questo tema non ha interessato i legislatori nazionali o le autorità di controllo perché lo status quo è duro da combattere (soprattutto quanto fa girare così tanti soldi) ma il tema è evidentemente attuale.
Le big four come vengono chiamate (PWC, Kpmg, EY, Deloitte) nella revisione contabile si spartiscono un mercato che vale oltre 100 miliardi di dollari in un oligopolio pericoloso. Sul tema su RadioBorsa, la podcast radio di SoldiExpert SCF, società di consulenza finanziaria indipendente, qualche mese fa abbiamo proprio intervistato un italiano, Mauro Botta, che nella Silicon Valley ha avuto il coraggio di denunciare il proprio datore di lavoro dopo 20 anni di lavoro, evidenziando un sistema zeppo di conflitti di interesse: “Vigilati che vanno a braccetto con i vigilantes. Certificazioni che arrivano nonostante gravi carenze nei controlli interni e a volte anche nei numeri di bilancio. Poltrone girevoli tra Autority e società di revisione. E collusioni tra chi deve certificare i bilanci e le società quotate in cambio di bonus e incarichi confermati. Alle società di revisione non è richiesta oggi troppa trasparenza nei confronti del lavoro di assistenza che garantiscono alle aziende: dai consigli fiscali alla consulenza sulle eventuali ristrutturazioni. In molti casi, queste attività collaterali possono essere di gran lunga più redditizie di un semplice contratto di revisione”.
Un tema quello dei revisori che dovrebbero essere seriamente riformati che aveva sollevato qualche mese fa ai microfoni di RadioBorsa, Gabriele Grego, l’artefice dello scoppio della bolla Bio-On, che aveva spiegato le stesse identiche cose viste da chi di mestiere fa il cacciatore di truffe finanziarie e gestisce un hedge fund che si è distinto nel settore.
E accade così di vedere revisori che vanno a braccetto con le società di cui dovrebbero controllare i bilanci fino a pochi secondi prima che succeda il fattaccio.
Nel Regno Unito i legislatori dopo numerosi scandali finanziari stanno valutando di smantellare le principali società di revisione contabile per migliorare la governance e la qualità delle loro revisioni. Troppi scandali hanno dimostrato che le Big Four (PwC, EY, Deloitte e KPMG) possono essere miopi nel loro esame dei conti annuali al fine di preservare il reddito derivante dalle loro attività di consulenza.
In Italia il tema dovrebbe interessare anche ai nostri legislatori come il tema della tutela del risparmio (dalla parte dei risparmiatori e non dei banchieri) ma non sembra interessare proprio l’argomento. Fino al prossimo scandalo finanziario casereccio dove tutti ci mostreremo stupiti e addolorati.
Articolo a cura di Salvatore Gaziano - SoldiExpert SCF
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