Nuovo regalo per banche e reti con i nuovi PIR, piani individuali di risparmio

Salvatore Gaziano Salvatore Gaziano - 17/11/2021 10:52

Altro giro e altra corsa e anche il governo Draghi sembra intenzionato a mettere mano alla normativa sui PIR, allargando questa volta i benefici fiscali e portare il tetto di investimento ammissibile annuale da 30 a 40.000 euro e fino ai 200.000 euro all’anno, dai precedenti 150.000 euro previsti come limite massimo dell’importo investito.

I fondi PIR sono di fatto dei “contenitori fiscali” che investono la stragrande maggioranza del proprio patrimonio su azioni e obbligazioni di aziende italiane. Trascorsi 5 anni dall’investimento iniziale, se il PIR è in guadagno, l’investitore può venderlo ed è esonerato dal pagamento delle tasse sulle plusvalenze realizzate e se muore nel frattempo i suoi eredi si consoleranno in parte non pagando sulla somma investita nei PIR tasse di successione.

Ma le cose stanno così o avere qualche riserva è lecito? Abbiamo analizzato la situazione su LetteraSettimanale.it, la newsletter settimanale di SoldiExpert SCF, società di consulenza finanziaria indipendente.


 

Il beneficio fiscale è un grande incentivo per banche e reti per vendere questi prodotti poiché molti risparmiatori italiani, di fronte alla parolina magica “no tax”, sottoscriverebbero pure il debito del Sudan. Ci si chiede quindi se investire sui PIR non sia un regalo a banche e reti.

Fra i pro di questo strumento c’è certo l’appeal fiscale ma che va correttamente inquadrato. Perché per non pagare le tasse sui guadagni prima di tutto devono esserci… E inoltre (aspetto importantissimo) il costo che si paga al gestore del fondo e ai collocatori non deve mangiare i benefici fiscali altrimenti il vantaggio può diventare soprattutto teorico. Ed è proprio su questo aspetto, quello dei costi, che ci si chiede i PIR sono un regalo a banche e reti?

Facciamo un esempio? Se un capitale di 100 si rivaluta in 5 anni del 40% grazie al fondo PIR un risparmiatore potrebbe risparmiare un 10,4% di tassazione (la tassazione sui guadagni in conto capitale è del 26%) che altrimenti porterebbe il rendimento netto al 29,6% (risultato di 40-10,4). Ma per godere di questo vantaggio la banca o assicurazione potrebbe chiedere di pagare in questo quinquennio un 10/15% di costi commissionali! Risultato: per pagare meno tasse se ne possono spendere anche di più in costi che vanno a favorire soprattutto la banca, la rete e i suoi venditori

Già da questo esempio si può pensare che investire sui PIR sia un regalo a banche e reti. E un altro aspetto a sostegno di questa tesi è che esistono fondi passivi (gli ETF) che possono investire nello stesso perimetro dei PIR e hanno costi nettamente più bassi (per esempio lo 0,4%) che si confrontano con il 2-3% medio effettivo di numerosi fondi PIR.

E per questo ottengono nel tempo risultati di gran lunga migliori come performance (e anche minori rischi) rispetto a quelli di molti gestori “attivi”. E questo succede in realtà in oltre l’85% dei casi dei fondi d’investimento collocati dalle banche e reti italiane. E ci sono certo le eccezioni (PIR compresi).

Non deve quindi sorprendere che molte banche e reti spingano i PIR e i loro fondi. Con il 2-2,5% all’anno di costi in 5 anni un 10/15% del capitale del cliente (comunque vadano i mercati) diventa ricavo e si sottrae al risparmiatore.

E per questo motivo il risparmio degli italiani è nei piani industriali di tutte le banche italiane il vero “petrolio” da estrarre. In altri Paesi nel mondo (Francia, Gran Bretagna o Stati Uniti) si è pensato a contenitori fiscali simili ai PIR (e senza vincoli nazionalistici così forti e potenzialmente rischiosi quando si concentrano troppo gli investimenti) e all’estero i legislatori e il mercato hanno previsto la possibilità per i risparmiatori di poterli costruire anche senza passare obbligatoriamente dai prodotti confezionati da banche e assicurazioni.

Componendosi per esempio con ETF o azioni e obbligazioni dirette il “PIR fai da te” o con l’ausilio di consulenti indipendenti vigilati. In Italia tutto questo non è stato nemmeno previsto o discusso dopo 5 anni dal lancio dei primi PIR. È lecito quindi pensare che i PIR siano un regalo a banche e reti visto che di fatto ancora oggi nessuna banca italiana consente a un risparmiatore, per esempio, di detenere un PIR “low cost” costituito da ETF.

È bene ricordare che in Italia i costi dei fondi PIR e del risparmio gestito sono troppo alti. Sono, infatti, fra i più alti non solo in Europa, dando una rendita di posizione formidabile a banche e reti. Ecco perché, dunque, credere che i PIR siano un regalo a banche e reti. Un recente studio di Mediobanca Securities pubblicato su SoldiExpert.com sulle società quotate del risparmio gestito ha evidenziato come molti costi applicati ai risparmiatori italiani sono ingiustificabili (possono assorbire anche i due terzi del risultato finale) ma il Governo e il Parlamento italiano evidentemente non considerano l’argomento degno di nota seppure la tutela del risparmio sia inserito nella Costituzione italiana e si parla ovunque nei convegni di ESG, sostenibilità e trasparenza.

Ed è curioso che Mario Draghi, l’attuale premier, così competente sulla materia non valuti le potenziali conseguenze anche negative delle rendite parassitarie. Che non riguardano solo i proprietari di stabilimenti balneari.

Draghi è stato peraltro allievo importante di Federico Caffè, docente di Politica Economica all’Università La Sapienza di Roma scomparso nel nulla il 15 aprile 1987 e conosce bene cosa pensava il grande economista pescarese in materia: “da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica con le caratteristiche che presenta nei paesi capitalisticamente avanzati favorisca non già il vigore competitivo ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio, che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori in un quadro istituzionale”.

L’entusiasmo di alcuni gestori sull’andamento dei Piani Individuali di Risparmio è quindi comprensibilissimo, visto i costi dei PIR così alti. Riguardo il fatto che con i PIR si finanzi l’economia reale italiana bisogna farci naturalmente una bella tara perché se si acquistano quote di azioni sul mercato secondario non un cent va all’economia “reale” se non a quella degli intermediari finanziari. Ma lo storytelling oggi vince su tutto.



Se si guarda poi la raccolta dei fondi PIR si noterà come in Italia 5 soli fondi (soprattutto di Intesa e Banca Mediolanum) catturano il 50% del mercato. Fondi che in numerosi casi rispetto a quanto ha performato il mercato hanno sovente fatto nettamente meno per i costi elevati applicati.

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Articolo a cura di Salvatore Gaziano
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