Incerte, combattute, costose: queste ultime elezioni di metà mandato negli Stati Uniti si sono rivelate subito una sorta di referendum su Trump, referendum che, nonostante l'aumento inatteso della partecipazione al voto, non ha permesso ai democratici di dare la spallata definitiva al potere del tycoon. Ma se Atene piange, è il caso di dire, Sparta non ride, perchè nemmeno Trump, dal basso di quel 40% di gradimento, può considerarsi al sicuro, pienamente legittimato, nonostante una campagna elettorale incentrata per lo più sulla lotta all'immigrazione, argomento particolarmente caro alla sua base elettorale.
L'esercito dei nemici di Trump
La prima sorpresa è arrivata dai numeri record dell'affluenza; basti pensare che 36 milioni di cittadini avevano scelto il voto anticipato, ben 10 milioni in più rispetto alle elezioni precedenti del 2014, quando questa voce si fermò a 27,2 milioni. Ad ogni modo la quota di partecipazione, alla fine, dovrebbe oscillare tra il 45 e il 50% degli aventi diritto, anche questo un record se lo si paragona al 37% del 2014. Altra novità: i candidati le cui caratteristiche caratteristiche erano quanto mai particolarmente eteogenee: transgender, gay, lesbiche, rifugiati, neri, nativi americani, ambientalisti, ma soprattutto molte donne e molti giovani. Insomma l'esercito dei “nemici” di Trump si è riunito per riuscire a combatterlo. E la corsa ai seggi, inizialmente, aveva suggerito un esito a dir poco clamoroso, esito che, invece, ha visto la vittoria del risultato più prevedibile: Camera ai democratici (223 seggi contro i 197 dei repubblicani), Senato ai repubblicani (51 seggi contro i 46 dei dem). Innegabile che lo zoccolo duro dei conservatori abbia retto bene: Indiana, Missouri, North Dakota hanno confermato la loro scelta rossa (negli Usa il rosso è il colore del partito repubblicano mentre quello blu è dei democratici). Di fronte a queste certezze il Presidente non ha esitato a parlare di grande vittoria. Ma come sempre è una questione di punti di vista.
Congresso diviso: le conseguenze
Avere in mano il Senato significa infatti controllare ancora le nomine federali, ma perdere la Camera equivale ad aver sciolto i mastini democratici, pronti a dare battaglia sul fronte dei numerosi lati per lo meno oscuri presenti ancora nell'inchiesta del Russiagate e negli affari del clan Trump. Non solo, significa anche, da un punto di vista strettamente politico, il concretizzarsi di uno stallo su molte delle riforme proposte dallo stesso Trump, in primis quella che prevede ulteriori tagli sulle tasse per la classe media. E ancora: la riforma sanitaria e la questione die prezzi dei farmaci. Un'eventuale proposta da qualsiasi dei due schieramenti, nata alla Camera, potrebbe facilmente essere bloccata al Senato proprio perchè i due partiti, sull'argomento, hanno priorità differenti. E lo stesso dicasi per il piano di investimenti in infrastrutture. Paradossalmente sia progressisti che conservatori sono favorevoli nel realizzarlo, quello che li separa, però, sono le modalità: da sempre, infatti, i repubblicani rifiutano la presenza di forti interventi di stato per gli investimenti preferendo invece la partecipazione in larga parte di sponsor privati.
La nuova strategia del presidente
La via d'uscita? Una serie di compromessi, come sottolineato anche da Trump durante la conferenza stampa durante la quale ha commentato i risultati delle elezioni: “Ora i democratici verranno da me e negozieremo”.
Quindi, la nuova strategia della Casa Bianca sarà quella di collaborare con i democratici facendo però valere il vantaggio della maggioranza repubblicana al Senato. E magari sfruttando anche la maggiore libertà che la Costituzione riserva in campo internazionale al presidente, per evitare i possibili ostruzionismi dei nemici al Congresso.
In tutto questo, attualmente, l'economia statunitense è in piena accelerazione con dati macro che permettono di essere ottimisti (forse fin troppo) anche per il prossimo futuro, ma non sono pochi quelli che vedono in questo rally esagerato un possibile pericolo. Disoccupazione ai minimi storici (3,7%), ottime trimestrali dalla maggior parte delle società quotate, abbondanza di greggio (gli Usa stanno affiancando la Russia per la produzione di petrolio) sono tutti fattori che giocano a favore indubbiamente del repubblicano.
I timori di Wall Street
Ma il futuro potrebbe non avere lo stesso tono. La pressione inflattiva è dietro l'angolo e la Federal Reserve potrebbe essere costretta a rincorrere la stabilità del dollaro aumentando il tasso di interesse, inoltre le varie guidance delle aziende quotate a Wall Street hanno già avvisato che nei prossimi mesi si potranno vedere, nei conti dell'ultima parte dell'anno alcune conseguenze della guerra commerciale tra Washington e Pechino. Già, la guerra commerciale, la stessa verso cui Trump si era dimostrato accondiscendente, poco prima delle elezioni e che ora potrebbe costringerlo a dover scegliere una nuova strategia. I CEO delle multinazionali hanno più volte espresso malumore per la guerra dei dazi intrapresa dall'inquilino della Casa Bianca, guerra che è appoggiata, paradossalmente, anche da parte dei democratici e dalla popolazione statunitense (in particolare dagli operai del Midwest). Ma la globalizzazione è un fenomeno che, a prescindere da pregi e difetti, non può essere estirpato e le conseguenze di una politica protezionista rischiano di abbattersi, se non lo hanno già fatto, proprio su quella middle class che ha votato Trump.
Articolo a cura di R.P.
Le informazioni contenute in questo sito non costituiscono consigli né offerte di servizi di investimento.
Leggi il Disclaimer »