Le quotazioni del petrolio sono ingabbiate da ormai due mesi in un’ampia zona di oscillazione (circa 20%) compresa tra 44 e 54 dollari il barile. I prezzi nell’ultima settimana hanno danzato a cavallo dei 50 dollari e hanno chiuso l’ottava appena al di sotto di questa soglia che corrisponde al passaggio della media mobile a 50 sedute.
Se si osservano i livelli delle scorte degli Stati Uniti, pubblicati dal Dipartimento dell’Energia, si può notare che si trovano ai massimi di tutti i tempi, in aumento da 8 settimane (+52 milioni di barili, +13,5%) e ben al di sopra della zona media degli ultimi 5 anni, evidenziata in grigio.
Sebbene la produzione USA sia in costante aumento, come si può osservare dal grafico, l’incremento produttivo cumulato nelle ultime 8 settimane (+1 milione di barili) non giustifica un aumento delle scorte di tale entità.
Al tempo stesso è apparentemente contraddittorio il conteggio dei pozzi di estrazione pubblicato dalla Baker Hughes: in continua diminuzione e quasi il 30% al di sotto di quelli in funzione un anno fa.
Come può essere compatibile un aumento della produzione con una diminuzione di impianti in funzione?
L’unica risposta può essere che i pozzi di estrazione in via di dismissione siano quelli che producono meno, cioè quelli meno efficienti; ma al tempo stesso non è escluso che quelli in produzione incrementino la loro efficienza, grazie a una tecnologia in continua evoluzione.
Tuttavia, il valore esorbitante delle scorte non trova ancora spiegazioni salvo una forte riduzione della domanda, che però appare in contraddizione con le stime di una tonica ripresa economica del Paese. Per comprendere meglio non resta che spostare il campo di indagine sull’andamento del valore storico delle scorte.
A quanto pare i periodi di incremento delle scorte sono abbastanza ciclici, ma ve ne sono alcuni che per ripidità di crescita ed estensione del movimento risaltano maggiormente: fra questi troviamo il periodo tra il 2008 e il 2009, nella fase più acuta della crisi, e un altro ancora lo si osserva appena prima della Guerra del golfo del 1990.
In quel tempo le scorte crebbero velocemente di oltre il 15%, sebbene non vi fosse alcuna avvisaglia che Saddam avrebbe invaso il Kuwait; come andò a finire lo sappiamo tutti: fu guerra globale e l’Iraq venne sconfitto da una coalizione di 34 paesi guidata dagli Stati Uniti.
Oggi il bacino del Mediterraneo e il Medio Oriente sono interessati dall’avanzata dell’Isis, le sanzioni alla Russia non hanno minimamente scalfito l’atteggiamento di Putin nei confronti dell’Ucraina, mentre l’Europa appare un insieme scarsamente coeso di Stati, ciascuno “libero battitore” della propria politica estera.
Obama con un consenso in calo e un Congresso “anatra zoppa” (camera e senato in mano ai repubblicani) avrebbe più di una ragione per voler mostrare i muscoli almeno sulla politica estera ed evitare una capitolazione dei democratici alle elezioni del 2016. Andando avanti questa tentazione potrebbe diventare irresistibile e già ora il petrolio dice: “guerra”.
Analisi a cura di Maurizio Mazziero
Fonte: www.mazzieroresearch.com
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