Era il 22 dicembre del 2018 quando, dopo un’assemblea del cda, il primo azionista di Banca Carige, Vittorio Malacalza, decideva di astenersi dal voto per la possibile ricapitalizzazione da 400 milioni di euro. Da lì a qualche giorno sarebbero arrivati i commissari della Bce.
La rete (provvisoria?) del governo Conte
Di ieri la decisione del governo di intervenire in prima persona, e per giunta con un provvedimento ad hoc, nella gestione della crisi dell’istituto di credito. Un intervento che non venne fatto nemmeno quando, a suo tempo, in pericolo era la più antica banca del mondo, Monte dei Paschi di Siena. In quell’occasione, infatti, si optò per un decreto salva-banche che si sarebbe occupato delle (tante) criticità del settore creditizio italiano.
Ma come si è giunti a questo punto?
Come per tutte le situazioni critiche le motivazioni affondano le proprie radici negli anni. I primi sintomi di un malessere che era stato debitamente nascosto si hanno nel 2013 quando, a seguito di alcune ispezioni effettuate da Bankitalia si nota una gestione troppo superficiale del patrimonio da parte di Giovanni Berneschi, allora presidente dell’istituto. Mutui, prestiti e crediti deteriorati le cause principali del dissesto che avrebbe portato poi a chiudere il 2013 con un rosso di 1,78 miliardi. Il primo aumento di capitale si ha nel 2014 e corrisponde a circa 800 milioni di euro. Ne seguirà un’altra di 850 l’anno successivo e una terza nel 2017 pari a 560 milioni. Totale: oltre 2 miliardi di euro in 3 diverse ricapitalizzazioni (risultate poi tutte, puntualmente, inutili) e un crollo verticale delle azioni che passano dagli 11 euro del 2013 agli 0,0015 euro registrati come ultima quotazione prima della sospensione da parte della Consob.
Ascesa di Malacalza
Parallelamente si assiste all’ingresso e all’ascesa di Vittorio Malacalza che da un’iniziale quota del 10,5% all’interno dell’istituto bancario arriva all’attuale 27,5%. Intanto crescono anche sofferenze ed incagli, voci che nel tempo arrivano a coprire il 20% del portafoglio. Per essere precisi, al 30 settembre del 2018 a bilancio si leggeva una voce riguardante i Npe pari a 4,5 miliardi su 17,2 miliardi di attivi ovvero un’incidenza del 27,5%. Un livello spropositato se si pensa che la Bce aveva fissato la percentuale dei Npl lordi al 5% e netti al 2,5%. Da qui la necessità di vendere in massa le sofferenze. La prima operazione risale a luglio 2017 e riguardava un pacchetto di oltre 938 milioni al 33% del valore. 5 mesi dopo, a dicembre, Carige chiuse la vendita di 1,2 miliardi di sofferenze a Credito Fondiario per una contropartita del 22,1% del valore. Numeri forti ma che, al di là di tutto, non hanno intaccato il problema. I Non performing loans risultano essere ancora alti: al 20,4% i lordi mentre quelli netti sono al 9,5%.
Scontro nel cda
A settembre 2018, per la precisione il 20 la struttura scricchiola pericolosamente con il primo scontro in cda fra Malacalza e il finanziere Raffaele Mincione. Il primo vince, ottenendo la maggioranza assoluta dei voti e creando, di fatto un nuovo Cda. La Bce tiene d’occhio la situazione giudicandola ancora gestibile. Tanto da concedere a Carige una proroga fino al 31 dicembre sul piano concordato con Francoforte per colmare le carenze nel capitale di secondo livello. Ma gli eventi precipitano ed esattamente tre mesi dopo, il 22 dicembre l’assemblea, di fronte alla prospettiva di un ennesimo aumento di capitale, vede l’astensione proprio del suo primo azionista, Malacalza intenzionato a vedere un piano di risanamento prima di concedere il suo voto. Sfuma, quindi, l’intera operazione. Da qui le dimissioni a cascata di tutti i membri del cda e l’entrata in scena della Bce arrivata il 2 gennaio. La Banca Centrale affida a Fabio Innocenzi, Pietro Modiano e Raffaele Lener (i primi già ex membri del cda, il terzo, un giurista inserito dalla Bce stessa) l’incarico di amministratori straordinari per la gestione transitoria dell’istituto.
Dal prestito alla (possibile) aggregazione
Per evitare il peggio, intanto, è arrivato il prestito da 320 milioni concesso dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) emanato come misura emergenziale in attesa di una possibile aggregazione. Per quanto riguarda i nomi già sono partite le indiscrezioni: si parla di Unicredit, Ubi, ma anche MPS e Crédit Agricole.
Di ieri l’ultimo colpo di scena, solo in ordine di tempo. Un Consiglio dei ministri straordinario ha deciso di fornire la garanzia per la copertura di ogni prestito eventualmente erogato discrezionalmente dalla Banca d’Italia all’istituto di credito ligure. Non solo, ma non è da escludere nemmeno una ricapitalizzazione precauzionale. Un’ipotesi giudicata estrema. O forse no.
Articolo a cura di Rossana Prezioso
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