Per quanto possa risultare noioso il sentirselo ripetere, più volte in questa sede abbiamo sottolineato come il tema centrale che ha cambiato il tono dei mercati nelle ultime settimane sia stato quello della
crisi di fiducia nei confronti dell’onnipotenza delle
banche centrali.
Le difficoltà di crescita del mondo emergente (Cina in particolare) sono state un catalizzatore in grado di far emergere questa criticità più che una causa a se stante, peraltro presente già da molto prima della debacle azionaria di agosto.
La reazione dei mercati, non entusiasta per usare un eufemismo, a quello che è stato un messaggio generalmente dovish (rialzo rimandato e nessuna particolare enfasi sulla volontà di alzare a ottobre o dicembre) va proprio spiegata in questi termini: qualcosa si è rotto nell’incrollabile fiducia nella capacità (più che nella volontà) dei policy-maker di intervenire all’occorrenza in soccorso al mercato e, in ogni caso, la Fed con la sua comunicazione farraginosa non sta certo migliorando la situazione. Cercando di interpretare il comportamento e soprattutto le spiegazioni date dallaFed, sosteniamo stia accadendo una di queste due cose.
1) La Fed è veramente preoccupata che il mondo sia cambiato post-crisi (vedi Larry Summers con la sua secular stagnation e teorie affini) ma non lo ammette apertamente (mantenendo tutti i suoi modelli previsivi e interpretativi invariati). Ci lascia così una sensazione di angoscia latente ma senza esprimere una consapevolezza e una volontà di reazione che potrebbe invece, se adeguatamente formalizzata, essere positiva per i mercati.
2) La Fed è semplicemente confusa e confusionaria nella comunicazione, causa ed effetto di una reazione agli eventi discrezionale e mutevole in maniera preoccupante. Sono sempre più vari i fattori che a turno prendono il sopravvento nel giustificare le scelte di politica monetaria: mercato del lavoro US, forza del dollaro, mercati ed economie emergenti.
Questa seconda ipotesi mi sembra più probabile della prima (confusa e confusionaria più che preoccupata da un mondo in crisi di crescita). Non è comunque una situazione positiva per i mercati. Per alcuni versi è anche peggio: nella sua confusione la Fed rischia di essere meno determinata nelle risposte qualora si rendessero necessarie. Per ora quindi prevale il ‘bicchiere mezzo vuoto’ visto dal mercato.
Dopo il crollo di agosto il mercato non è riuscito a recuperare le perdite con la facilità che tante volte aveva mostrato negli ultimi anni (tranne nell’agosto-ottobre 2011) e le salite, a tratti poderose, si sono rivelate semplici correzioni di un trend ribassista (non necessariamente un bear market) che ora sembra ‘cementato’ dalla price-action delle ultime sessioni. Nel breve periodo, con le probabilità di un rialzo ad ottobre scese ad un insignificante 15% e con quelle di un rialzo entro fine 2015 che si giocano sul filo del 50%, mi aspetterei che Janet Yellen e gli altri governatori tendano ad farle aumentare con qualche dichiarazione, per mantenere viva l’opzionalità desiderata per le prossime riunioni, aspettando dati economici US ed evoluzioni globali.
Inoltre, una Fed che si dichiara influenzata dallo scenario globale fornisce alla price-action delle caratteristiche ‘auto-correttive’. Una nuova discesa degli indici tenderà a ritardare/allontanare il ciclo di rialzi e, viceversa, un eventuale rimbalzo azionario tenderà a dare una luce verde (almeno una di quelle richieste) alla Yellen per procedere al ritocco rialzista. Questi processi stabilizzanti non riusciranno più però ad avere l’ampio respiro che avevano in passato, quando la credibilità delle azioni che le banche centrali potevano mettere in pista era molto più elevata.
Adesso
il futuro dei mercati è decisamente più nelle mani dei dati economici e delle evoluzioni dell’economia reale. Il PMI cinese di mercoledì mattina sarà, se possibile, ancora più seguito.
Analisi a cura di Alessandro Balsotti, Senior Portfolio Manager di JCI Capital Limited
Fonte: www.finanzaoperativa.com
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