Pur nutrendo una crescente fiducia nel fatto che Cina e Stati Uniti avrebbero trovato un accordo sugli scambi commerciali, abbiamo sempre sostenuto che l’incapacità nel raggiungerlo costituiva l’unica vera minaccia per la crescita economica nel 2019.
Una settimana fa, quando Trump ha minacciato un’escalation dei dazi sui beni cinesi per 200 miliardi di dollari, qualora Pechino non avesse fatto maggiori concessioni, buona parte dei progressi compiuti nei negoziati è sembrata andare in fumo. Dopo quattro giorni di rinnovata volatilità sui mercati finanziari, mi sono trovato a scrivere queste righe, di venerdì mattina, poche ore dopo la scadenza dell’ultimatum della mezzanotte per le concessioni.
Dobbiamo considerare che l’accordo sia arrivato al capolinea? In caso di risposta affermativa, ci saranno ripercussioni per gli asset rischiosi? E quanto gravi?
Fuori dai radar
Può darsi che un paio di settimane fa, quando l’S&P 500 ha toccato nuovi massimi, per poi scivolare rovinosamente il giorno della conferenza stampa della Federal Reserve, i mercati abbiano avuto il sentore di quello che sarebbe successo. Forse la recente debolezza dei mercati emergenti e dei metalli industriali rappresentava un sintomo di problemi irrisolti a livello di commercio globale. Forse. Ma nel complesso, gli investitori sembrano essere accecati.
Neanche mercoledì scorso, quando abbiamo condotto un sondaggio tra i CIO presenti al nostro “Investment Leaders Summit” annuale, nessuno ha dichiarato di prevedere una recessione nei prossimi 12 mesi. Men che meno che l’inflazione sarebbe il catalizzatore di una eventuale recessione. Riteniamo che simili previsioni siano probabilmente corrette, ma il sondaggio ci ha ricordato come la guerra commerciale, un fattore potenzialmente in grado di minare la crescita e l’inflazione, fosse da tempo fuori dai radar di tutti.
A metà settimana è parso chiaro che il termine ultimo di venerdì sarebbe quasi certamente scaduto e che i dazi sarebbero aumentati, perché il recente fallimento dei negoziati è stato causato da un nodo fondamentale e difficile da sciogliere.
Robert Lighthizer, rappresentante al commercio statunitense nonché storico oppositore della Cina, è la figura principale che ha insistito affinché le concessioni di Pechino in materia di politica commerciale venissero integrate nel diritto cinese. Se ciò avvenisse, qualsiasi nuovo accordo sarebbe più facile da applicare e avrebbe maggiori chance di sopravvivere oltre la scadenza dell’attuale amministrazione USA. Sono stati compiuti alcuni passi avanti in questa direzione, ma a quanto pare è lo stesso Presidente Xi Jinping ad essersi opposto.
Un dietrofront da parte di entrambi i contendenti avrebbe probabilmente portato i mercati azionari a toccare un minimo, per poi passare a un nuovo rally, nell’arco di tempo tra il momento in cui scrivo e il momento in questo articolo verrà pubblicato. Sennonché, ora come ora né Washington né Pechino dispongono di molti spazi per compiere un passo indietro.
Terreno di correzione
Ad ogni modo, un’escalation dei dazi non implica necessariamente un affossamento dei negoziati e di qualunque speranza di accordo. Anzi, la nostra view è che una simile eventualità resti estremamente improbabile. Entrambe le parti in causa possono fare marcia indietro, ma ci vorrà più di un paio di giorni e, verosimilmente, ciò accadrà in un quadro caratterizzato da tariffe più elevate.
Questo, però, implica sicuramente che gli investitori dovranno affrontare altre settimane e altri mesi di incertezza su una vicenda che avevano già iniziato a scontare negli asset rischiosi. Nella giornata di borsa di venerdì si parlava di “sell the rumor, buy the news”, ma in ultima analisi non ci sorprenderebbe se questo si traducesse nella perdita della metà (o anche più) dei rendimenti che le azioni hanno registrato nei primi quattro mesi dell’anno. Dovesse accadere, l’S&P 500 si ritroverebbe in territorio di correzione.
Anche i mercati del credito soffrirebbero, ma riteniamo che sarebbero meno vulnerabili, alla luce sia delle valutazioni, sia degli utili del primo trimestre moderatamente positivi (che hanno risanato i fondamentali), sia del miglioramento della liquidità e dei fattori tecnici dei mercati dopo i forti ribassi di dicembre.
Ovviamente il quadro potrebbe anche peggiorare. Gli Stati Uniti hanno avviato le pratiche necessarie per imporre i dazi su tutte le altre importazioni cinesi, una mossa che farebbe più che raddoppiare il numero di merci coinvolte. La procedura richiederà uno-due mesi, un arco di tempo in cui dobbiamo presumere che i soggetti impegnati nelle negoziazioni continueranno le trattative. La Cina ha annunciato ritorsioni, sulle cui tempistiche e modalità aleggia tuttora un velo di incertezza.
Se la nuova serie di dazi doganali verrà resa operativa, i consumatori statunitensi ne sentiranno l’effetto sotto forma di rincari. Ciò comporterà probabilmente un leggero aumento dell’indice dei prezzi al consumo, contrariamente a quanto era accaduto con la prima tranche di dazi che aveva colpito principalmente beni capitali e intermedi. E non dimentichiamo che, Cina a parte, nei prossimi cinque giorni dovrà essere presa la grande decisione “ex Section 232” relativa all’imposizione di dazi sulle auto di importazione. Se sull’uno o sull’altro di questi fronti dovessero esserci brutte notizie, le probabilità di un significativo rallentamento della crescita aumenterebbero.
Ciò nonostante, ancora una volta questo non rappresenta il nostro scenario fondamentale. L’obiettivo ultimo di un accordo definitivo e duraturo è palesemente nell’interesse di tutti. Molto probabilmente ci aspetta un’estate piuttosto turbolenta che tuttavia potrebbe offrire un’opportunità a chi saprà muoversi con agilità per catturare valore.
Articolo a cura di Brad Tank, Chief Investment Officer-Fixed Income Neuberger Berman
Fonte: www.finanzaoperativa.com
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