Da dove potrebbe arrivare la prossima recessione?

Finanza Operativa Finanza Operativa - 02/12/2019 16:33

Con i mercati azionari che segnano nuovi massimi quasi ogni giorno può sembrare una perdita di tempo fermarsi un momento per verificare che tutto sia a posto e che non ci sia una recessione dietro l’angolo. Tanto più che il prossimo è un anno elettorale e da che mondo è mondo qualsiasi esecutivo che voglia essere riconfermato cerca in ogni modo di presentarsi agli elettori con un’economia brillante, rinviando al primo anno dopo il voto un’eventuale recessione.

Vero, ma se andiamo indietro all’autunno 2007, vigilia di un anno elettorale come oggi, vediamo anche lì nuovi massimi storici, legittimati (di nuovo come oggi) da tre tagli dei tassi da parte della Fed nei mesi precedenti. E quello che iniziò a succedere dodici mesi dopo, inclusi i cinquanta milioni di nuovi disoccupati a livello globale creati dalla Grande Recessione, ci deve indurre a essere umili nel prevedere il futuro.

Detto questo, molti dei classici sintomi di una recessione, che nel 2007 non si volevano vedere, oggi sembrano proprio non esserci.

Si va in recessione o per troppo caldo o per troppo freddo. Per surriscaldamento dei classici settori ciclici (immobiliare e auto in primo luogo, ma anche le bolle finanziarie entrano in questa categoria) o per asfissia e congelamento e appassimento di settori uno dopo l’altro. Il surriscaldamento è il segno di un eccesso di domanda (spesso finanziata a debito), il raffreddamento è il segno di un eccesso di offerta (troppo carbone, troppo shale oil, troppe auto prodotte) o, paradossalmente, di un’improvvisa contrazione dell’offerta, come avvenne negli anni Settanta con le due crisi petrolifere. Ci sono poi, per completare il quadro, le recessioni di origine finanziaria (crisi da bilancia dei pagamenti, crisi del debito pubblico, crisi bancarie) e quelle derivanti da esogene (guerre, epidemie, carestie, terremoti).

Oggi i settori ciclici sono da tranquilli a leggermente depressi e di tutto si può parlare fuorché di surriscaldamento. Ci sono settori in crisi da raffreddamento (l’immobiliare commerciale, la distribuzione tradizionale, alcune energie fossili) ma le loro difficoltà vengono assorbite in larga misura da finanziatori non bancari (obbligazionisti, fondi di private equity) e quindi non diventano sistemiche. Le banche sono molto solide in America e sono finalmente un po’ meno fragili in Europa. Sono più fragili in Cina, ma lì non esiste il tabù del sostegno pubblico.

Il debito nel mondo è ai massimi storici, ma è anche detenuto in misura crescente da mani solide (le banche centrali che, volendo, potrebbero anche cancellarlo). La bolle finanziarie sono certamente in formazione (in particolare nei crediti), ma finché i tassi rimarranno bassi (come sarà nel 2020) non scoppieranno. Quanto alle esogene, toccando ferro, abbiamo solo la guerra commerciale, che sembra avviata verso una tregua.

Restano due possibilità per una recessione nel 2020

La prima è quella di un errore di politica monetaria. Non di un errore futuro, ma di un errore già commesso. Ci riferiamo ai due rialzi di troppo dei Fed Funds di fine settembre e fine dicembre 2018, un anno fa, e al Quantitative tightening chiuso in fretta e furia, per fortuna, tre mesi fa. Tutte misure dovute a colpe gravi. La prima, il dottrinarismo dei tanti seguaci della curva di Phillips ancora presenti nella Fed, è umanamente perdonabile. Nessuno abbandona facilmente le credenze che ha condiviso tutta una vita. La seconda, l’alzare i tassi per ripicca contro Trump che chiedeva rudemente di abbassarli, è assolutamente imperdonabile, anche perché ha indebolito il prestigio della Fed proprio nel momento in cui si voleva marcarne l’indipendenza a futura memoria.

Per gli effetti ritardati della politica monetaria (da 12 a 18 mesi, a volte anche di più) l’errore di fine 2018 deve ancora finire di dispiegare i suoi effetti negativi. Esiste dunque una finestra di rischio per i primi mesi del 2020, quando i primi germogli di ripresa dovuti alla tregua commerciale dovranno scontrarsi con consumi e investimenti che si stanno ancora indebolendo.

La seconda possibilità di recessione potrebbe essere dovuta a una crisi di fiducia negli Stati Uniti. Non tanto per l’impeachment, che si sta rivelando una bolla di sapone, quanto per le presidenziali che si avvicinano. Tra alti e bassi, i due candidati democratici anti-business, Warren e Sanders, controllano metà dei voti delle primarie e Bloomberg sembra solo togliere consensi agli altri centristi. Si profilano quindi due scenari profondamente divergenti. Nel caso di un Trump in ripresa di consensi nei prossimi mesi, la Convenzione democratica di Milwaukee, in giugno, nominerà un centrista nella speranza che solo lui (o lei, non dimentichiamo la Klobuchar, un’ottima candidata) possa battere Trump. In questo caso i mercati si troveranno di fronte due candidati pro business o comunque non ostili. In caso di Trump debole, tuttavia, la tentazione di una scelta radicale potrebbe prevalere e trasformarsi, proprio per la debolezza di Trump data in ipotesi, nella conquista finale della Casa Bianca.

In questo secondo scenario, la crisi di fiducia potrebbe iniziare anche prima del voto, frenare ulteriormente gli investimenti produttivi, che già brillano poco, e cominciare a provocare una riduzione delle assunzioni di nuovo personale da parte delle imprese. Ricordiamo che, storicamente, basta un aumento del tasso di disoccupazione di 0.4 punti percentuali per provocare una recessione. Oggi siamo al 3.6. Non inganni il fatto che il 4.0 sarebbe ancora un basso livello di disoccupazione. È la differenza che conta.

Concludiamo questa prima parte dando un’occhiata alle stime di probabilità di una recessione l’anno prossimo che circolano tra gli economisti e nel mercato. Colpisce l’enorme dispersione di queste stime.

La Fed di St.Louis, che si è dotata di un modello piuttosto robusto che include variabili sia macro sia finanziarie, assegna un quasi inesistente 3 per cento di probabilità a una recessione nei prossimi dodici mesi. La Fed di New York, con un modello centrato sulla curva dei rendimenti, decuplica le probabilità e le porta a un 30 molto volatile. Più o meno sugli stessi livelli sono i modelli di Morgan Stanley, Goldman Sachs e Bloomberg Economics.

Da parte sua, Ben Bernanke, alla fine dell’anno scorso, pronosticò per il 2020 un momento alla Wile E. Coyote (disse proprio così) per l’economia americana. Dopo la corsa veloce che ha accompagnato i primi due anni successivi alla riforma fiscale una breve recessione sarebbe stata fisiologica. Da allora Bernanke non è più tornato sul tema.

A parte Jeffrey Gundlach, che assegna una probabilità del 75 per cento, la cosa più interessante è che secondo alcuni in recessione ci siamo già. Lo dicono ad esempio Gary Shilling e David Rosenberg, due economisti spesso controcorrente e spesso, a conti fatti, dalla parte della ragione. La decelerazione dei consumi (il 70 per cento del Pil americano) e l’errore della Fed l’anno scorso sono da loro indicate come le cause più vicine.

Staremo a vedere, anche se al momento quello che si vede è ancora solo un rallentamento, non certo una recessione.

In settimana proveremo a vedere se ci sono ancora strumenti per contrastare un’eventuale recessione, cosa potrebbe accadere in Europa e le conseguenze per i mercati. Spingeremo anche lo sguardo sul 2021.

Nel frattempo, se vogliono, le borse hanno tutte le scuse per non scendere e per salire ancora un po’, trainate dalla liquidità che una Fed spaventata dai suoi errori sta immettendo con un’aggressività vista raramente anche nei momenti più bui.

E così intorno al 15 dicembre festeggeremo il rinvio dei nuovi dazi già rinviati in settembre da Trump. Poi si parlerà del rally di fine anno, poi di quello di inizio anno e poi si attenderà con trepidazione e grandi speranze l’incontro a Davos a fine gennaio tra Trump e Xi, dove potrebbe essere finalmente firmato l’accordo sulla Fase Uno.


A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos Partners per ITForum.it
Fonte: www.finanzaoperativa.com

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